TASSI SOTTOZERO – Quando troppo è troppo

Il zero lower bound principle è uno dei quei caposaldi onnipresenti in tutta la teoria classica e neoclassica in ambito macroeconomico. Molto semplicemente, tutti avevano teorizzato l’impossibilità di poter ottenere tassi di interesse negativi. Ma come sempre, la politica economica è pronta a sorprendere e, a seguito di una delle più pesanti crisi economiche della storia all’uomo conosciuta, le banche centrali si trovano costrette a ricorrere ad una nuova tipologia di strumenti di politica monetaria, di carattere non convenzionale. Il famoso QE, di cui la FED (la Banca Centrale degli USA) si è fatta promotrice e prima utilizzatrice, passato poi tra le manovre più importanti della BCE, ha permesso tagli di interi punti percentuali del tasso di interesse, al fine di stimolare l’economia e favorire l’investimento, motore di crescita e sviluppo nel breve e nel lungo periodo. Una situazione che, sebbene nel nostro Paese non abbia avuto i risultati sperati in aumento del credito alle imprese, facendo registrare un calo di qualche punto percentuale nel rapporto banche CER degli ultimi mesi, ha invece fatto registrare una crescita del debito contratto nell’eurozona. Con una situazione decisamente più complicata sul fronte del debito pubblico. Con un rapporto debito/PIL attorno al 130%, date le dimensioni della nostra economia, si rende bene l’idea di come una minima variazione al rialzo del tasso di interesse (in particolare relativamente alla diminuzione del programma QE inaugurato dall’era Draghi alla guida della BCE) potrebbe prospettarsi un colpo durissimo. L’attuale situazione, da molti definibile eccessivamente artificiale e slegata dalle logiche di mercato, permette tuttavia al nostro Paese di re-finanziare l’ingente debito pubblico ad un costo accessibile, conscio di avere nella BCE un acquirente importante sulla quale poter contare. E viste le premesse, in pochi sembrano contare in un riposizionamento dopo il cambio al vertice della BCE verso un taglio drastico della politica espansiva attuata fino ad ora. Ma per quanto necessario tale manovra sia per la sostenibilità della stessa eurozona, la BCE si trova in una situazione davvero pericolosa. Con una politica monetaria espansiva particolarmente spinta, trovarsi in una situazione di potenziale crisi all’interno dell’area euro potrebbe portare ad uno stallo molto pericoloso. Con la Germania, traino economico dell’eurozona, verso una prospettata recessione tecnica dato da un costante calo della produzione industriale negli ultimi trimestri, la possibilità non sembra nemmeno così remota. E dati i tassi di interessi già allo 0% se non negativi, un taglio dei tassi si preannuncia chiaramente impossibile. Al momento il costo di questi tassi negativi pesa quasi esclusivamente sulle banche commerciali e la loro redditività. A seguito delle riserve obbligatorie da tenere presso la banca centrale da parte degli istituti privati, sottoforma di deposito effettuato presso la banca centrale, le banche commerciali vedono i propri depositi andare a ridursi giorno dopo giorno. Non solo un investimento improduttivo (tale denaro non genera interesse), ma addirittura a perdere per tutti quegli operatori. Una pressione tale da indurre la stessa BCE a ridurre l’ammontare minimo richiesto come deposito presso i propri conti dal 2% all’1% dell’ammontare complessivo dei depositi dei correntisti (e altre aree del passivo bancario) in modo da evitare il declino negli indici di profitto degli istituti in area euro. Fino a giungere alle recenti proposte (in alcuni Paesi già realtà) di riportare tassi di interesse ai nei conti depositi dei correntisti (come proposto dal CEO di Unicredit). Proposta per molti difficile da attuare, vista la soglia psicologica dei correntisti verso un tasso di interesse con segno negativo. Alcune proposte più estreme vengono da una potenziale apertura della banca centrale ai privati, che permetterebbe una politica monetaria decisamente più efficace attraverso un controllo diretto della moneta e non indiretto come oggi tramite il controllo delle banche commerciali. 

E in tutto questo scenario nei mercati finanziari si sta assistendo ad una vera e propria ricerca di ritorni. Tra i best buy del momento abbiamo prodotti basati su leveraged loans, frutto di una azione di rebranding in grande stile. Trattasi in grossa parte prestiti concessi a soggetti con una storia creditizia problematica o già particolarmente indebitati o, come molti li conoscono, mutui subprime. Una quantità addirittura superiore a quella precrisi del 2008, e, secondo dati S&P Global, in crescita sul mercato americano ed europeo. Una posizione di estremo pericolo nel caso di un movimento dei tassi al rialzo, con il rischio di un aumento esponenziale dei default sul debito contratto. Con la Germania ed altri Paesi invocanti uno stop alla politica eccessivamente interventista finora portata avanti dalla BCE preoccupati da un potenziale rischio inflazione, e una generale sensazione di impotenza da parte delle autorità centrali, la situazione presenta numerosi rischi da tenere sotto controllo da tutti, dagli operatori di mercato ai comuni risparmiatori.

IL CUORE SAUDITA

Una ferita al cuore saudita quella inferta appena qualche settimana fa, ad il cuore dell’economia del regno. Un violento attacco da parte di alcuni droni alla più grande raffineria in nel regno saudita ha causato una vera e propria ondata di polemiche e rinnovato la oramai decennale rivalità tra Arabia Saudita e Iran. Potrebbe sorgere spontaneo chiedersi il motivo di tale attacco, secondo fonti internazionali, effettuato da droni provenienti da alcuni gruppi estremisti situati nel sud della penisola arabica, in Yemen. Per comprendere l’accaduto è necessario partire dall’inizio, ripercorrendo gli ultimi decenni di relazioni saudo-iraniane. Due Paesi in un’area geografica da sempre calda e non facilmente gestibile, le due superpotenze si sono spesso scontrate a partire dagli anni ’70 per motivi religiosi ed economico-politici. Religiosi, in quanto, nonostante entrambi a maggioranza musulmana, appartenenti a due ideologie contrastanti: Sunniti in Arabia Saudita, Sciiti in Iran. Entrambi i Paesi visti come leader religiosi per le rispettive fazioni, spesso sfociano in pesanti scontri per difendere l’onore della loro tradizione religiosa. Ma le radici dello scontro sono anche di natura politica ed economica. Con la rivoluzione iraniana della fine degli anni ’70, e la paura della diffusione del pensiero ideologico rivoluzionario anche in Arabia Saudita, la potenza arabica subito si adopera per cercare di evitare il contagio. Senza arrivare mai ad un vero scontro diretto, Iran e Arabia Saudita si sfidano su territori stranieri. Prima in Iraq, poi in Yemen ed in Siria, appoggiando le diverse fazioni locali sulla base della fede religiosa. E nell’ultimo attacco di settembre si è puntato alla raffineria Aramco (la società saudita sotto il controllo del regno colosso nel settore deli idrocarburi) responsabile per la produzione di circa il 5% del totale della produzione di prodotti petroliferi raffinati a livello globale, causando nel giro di poche ore una piccola impennata nel prezzo del petrolio. 

Ad oggi l’Arabia Saudita rappresenta uno dei più importati player all’interno dell’OPEC, il consorzio internazionale dei maggiori produttori di petrolio. Anche l’Iran ne fa parte, altro Paese ricchissimo di oro nero, anche se pesantemente svantaggiato dalle sanzioni internazionali imposte dagli Stati Uniti nei confronti delle esportazioni del Paese. Player importante, proprio il colosso a stelle e strisce è tra i maggiori partner commerciali dell’Arabia Saudita, nonché uno dei primi importatori di petrolio ed esportatore di armi e manifattura bellica. Una vera amicizia strategica, che molto dice sui motivi alla base dell’intervento statunitense nella guerra in Iraq innescata nel 2003, con Stati Uniti e Arabia Saudita partner strategici in territorio iracheno. D’altro canto, l’Iran non può dirsi da meno in quanto ad alleanze strategiche. E proprio con un rivale storico degli States che l’Iran ha deciso di schierarsi nel conflitto: la Russia. Attraverso supporto logistico e militare, spinto in parte da motivazioni storiche (nota è la vicinanza del blocco sovietico con il regime di Saddam Hussein), una sorta di guerra fredda è stata combattuta dagli alleati in territorio straniero. Esempio perfetto di proxy war. Ma è proprio il petrolio una delle principali motivazioni dietro agli attacchi più recenti. Risorsa indispensabile e combustibile dell’economia, si tratta ad oggi del principale prodotto esportato dal regno saudita. Un attacco al cuore del Paese, della sua economia, che dalla sua scoperta ha trasformato il Paese in una delle nazioni più ricche e prospere del mondo, rendendo la capitale Riyad una vetrina del lusso e dell’opulenza. Un vero business per le industrie del settore che vedono nel medio oriente uno dei migliori mercati di sbocco commerciale.

 Gioielleria, auto, finiture di pregio, in larga parte finanziato dall’immenso export petrolifero del Paese. Ma non di solo lusso vive il Paese. Paese scarso di terre coltivabili, e con un settore manifatturiero poco sviluppato, risulta tra i principali importatori di commodity agricole e semilavorati. Un potenziale attacco all’economia saudita costituisce al momento non solo una minaccia diretta per gli incrementi del costo dei raffinati del petrolio, ma anche indiretto per l’impatto sul potere di acquisto saudita. Senza contare l’importanza strategica del Paese. In un contesto di generale instabilità, la forte presenza dell’Arabia Saudita in medio oriente in qualche modo riesce ad evitare la totale esplosione di un conflitto dagli esiti potenzialmente devastanti. Non tutto oro quel che luccica, e mai come in Arabia Saudita l’analogia risulta essere migliore. Un Paese ricco e potente, ma con un grosso tallone d’Achille scoperto. 10 droni con tecnologia nord-coreana hanno causato un blocco temporaneo della produzione petrolifera di uno dei più grandi player mondiali nel settore. Una minaccia incombente, che mostra ancora una volta un tasso di correlazione elevato tra luogo di estrazione petrolifera e instabilità geopolitica. Che porta ad una riflessione inevitabile relativamente al nostro sistema produttivo, ancorato ad un modello forse vetusto e superato, basato su commodity non rinnovabili provenienti da Paesi instabili. Forse è davvero giunto il tempo di ripensare a questo modello, virare verso sistemi energetici sicuri, stabili ed innovativi. Forse Greta Thunberg ha più ragione di quanto si possa immaginare. (www.invenicement.com/fridays-for-future-dalle-parole-ai-fatti)

Yield Curve: un rollercoaster finanziario

Spesso si immagina il lavoro dell’analista finanziario come a quello di un veggente. In realtà la faccenda è molto più complessa e numerosi strumenti danno la possibilità di fare previsioni più o meno accurate su quanto si prevede possa accadere in futuro. Forse uno degli strumenti di spicco oggigiorno è la curva dei tassi di interesse, nota nel mondo anglosassone come yield curve. Si tratta di un indicatore grafico estremamente efficace che relaziona il rendimento dei titoli di Stato con la relativa scadenza. E forse proprio per la sua precisione nel predire fenomeni recessivi o espansivi a livello macroeconomico nel corso degli anni, oggi desta sempre più preoccupazione tra gli esperti. 

Ma di cosa si tratta esattamente?

Si tratta di una rappresentazione grafica, come già detto, della relazione che intercorre tra tassi di interesse (solitamente di titoli di stato) e la relativa maturità. Una curva in condizioni normali dovrebbe essere di tipo crescente e dovrebbe rappresentare una economia in buono stato di salute; per i titoli più vicini alla scadenza il rendimento risulta essere meno elevato, perché i rischi relativi all’investimento fatto sono minori (minore rischio di default o fallimento nel ripagare il titolo a scadenza, minore rischio di perdita di valore per inflazione…). Procedendo verso la parte destra del grafico la curva invece continua a crescere a seguito dell’aumento dei rischi e del rendimento connesso alla maggiore maturità (maggiori rischi di default ad esempio), in una sorta di relazione diretta. Ma non esiste una sola tipologia di curva dei tassi di interesse: essa può assumere diverse forme e direzioni. Altra tipologia è a cosiddetta curva “piatta” (“flat”), e la curva invertita (“inverted”) che, come suggerisce il nome, è di fatto invertita rispetto all’andamento normale della curva in condizioni economiche positive. Essa si riflette in un valore dei tassi di interesse nel breve periodo più elevata rispetto a quelli nel lungo periodo. Una delle motivazioni potrebbe essere l’incertezza nei mercati finanziari, che, non essendo fiduciosi nel possibile andamento economico nel futuro, preferiscono investire nel breve periodo per il quale avvertono una maggiore sicurezza generale. Per la legge della domanda e dell’offerta i prezzi calano e i tassi di interesse crescono.

In passato una inversione della curva dei tassi è pressoché sempre stata accompagnata da un periodo di recessione, rivestendo in qualche modo il ruolo di un vero e proprio segnale premonitore. Solamente in un’occasione nel corso di 70 anni questo indicatore ha sbagliato la propria premonizione, fattore che rende la sua analisi di estrema importanza per un qualsiasi analista. 

Da marzo di quest’anno la curva dei tassi statunitense si è invertita e continua ad essere invertita da allora. Di fatto tutti i soggetti coinvolti nel settore finanziario, dalla banca centrale cinese alla BCE fino a tutti i maggiori fondi di investimento e fondi pensione, investono una qualche proporzione dei propri fondi in questi titoli ritenuti sicuri per il loro portafoglio. Pertanto, la stessa yield curve, che in parte rappresenta la domanda e l’offerta di titoli di uno specifico stato emittente, rappresenta nel caso statunitense l’opinione generale del mercato verso la situazione economica del Paese. Guardando la curva, sembrerebbe un Paese sull’orlo di una recessione, in netto contrasto ai dati sull’economia statunitense che nonostante la guerra commerciale con la Cina non sembra essere intenzionata a fermarsi. 

Come spiegare una situazione del genere pertanto? Di fatto si deve tenere conto che la stessa curva, dal lato offerta di titoli, dipende strettamente dalla politica monetaria adottata dal Paese in questione. Nel caso statunitense, nell’ultimo decennio la politica monetaria negli States si è caratterizzata per numerose sperimentazioni, tra le quali l’uso intensivo del Quantitative Easing (QE) e altre politiche monetarie espansive. Ad oggi, la FED si definisce come “beyond the curve”, ossia in grado di controllare l’andamento e di influenzarne tramite nuovi strumenti di politica monetaria innovativa. Questo si riflette in una curva che sembra non riuscire più a prevedere l’andamento economico di un Paese.

DI fatto, numerosi sono comunque gli strumenti tutt’oggi a disposizione degli analisti. Il tasso di disoccupazione è strettamente legato alle performance economiche del Paese, e permette di prevedere in qualche modo il rallentamento di manifattura, primario e servizi. La stessa ricerca nei media della parola “recessione” dà un’idea di massima del clima che si respira nel settore finanziario. Tuttavia, si tratta sempre di valori indicativi, la cui lettura deve essere in generale fatta in un quadro d’insieme. È indubbio che non si tratta di segnali infallibili, ma con una guerra commerciale avviata con la Cina e un generale rallentamento nella crescita dei posti di lavoro, l’attenzione nel settore è più alto che mai.

The Big Bubble

During all the summer the first pages of almost every newspaper were reserved for the clashes between the US president Donald Trump and Xi Jinping, the Chinese general secretary of the communist party, leader of the Asian giant country, and the tariff battle among them. However, even if the tariff dispute continues to struggle their economies, for China this isn’t the only problem to face, and inside the country there are still big troubles that threaten the economic predominance of the most powerful country of the region and the second one in the world.

During the past few years, a lot of film makers have decided to focus their attention on a strange phenomenon: ghost cities. Like Ordos, in Inner Mongolia, a city built for thousands of people that is most of the time completely empty. Many buildings are unoccupied, unfinished, and many investors have decided to leave their investments there. Moreover, is not an isolated case. Looking at the prices of new homes during the past few years, the values of commercial and residential constructions have boomed, and they are expected to rise of 3.3% in the first quarter of 2019, after a 5% increase during this year. The government knows the importance of the real estate sector and have decided to invest 990 billion yuan (more or less 143.63 billion US$) to push the sector around the country through the PSL (Pledged Supplementary Lending) plan, based on demolishing old constructions (concentrated usually in rural areas) to move workers inside whole new cities, to stay near new offices and factories.

However, it is also true that in many developed parts of the country, like the Zhenjiang and Shenzhen provinces, prices have reached levels that are way too high for common workers and employees; this problem is known also in the new big cities, where for the rural residents the prices of the new flats are high too.

A part of the problem has been identified in the speculations of big companies, that have decided to exploit the increasing prices in the market to invest and buy big residential areas just as a common asset in their portfolio. The government is trying to limit the speculation, with controls on the residence of the buyers and by limiting the number of houses you can own in some districts. Also, they have tried to limit the convenience of these speculative investment through taxation and higher fiscal expenses on second homes.

Anyway, this doesn’t seem to be enough, and the prices are continuing to grow, reaching levels that are completely dissociated to the real value of the constructions sometimes. For some analysts it seems to be not so far from the sub-prime scenario that has invested the US market just 10 years ago.

 

 

 

 

 

And as in the US case, the problem is still strictly associated with the financial sector, in particular with credits and mortgages on real estates. From recently data provided by the Bank of International Settlements, the total value of credit to the non-financial sector has reached the level equal to 261.2% the annual GDP, too high for a country that is still classified as developing. And the rate is expected to grow at even higher values in the next few years. And together with the increase in the value of loans granted, it is booming also the value of NPL, that have reached an unofficial level of 15% of the total credit positions still pending. We consider the unofficial value, because the official data are surely underestimating the entire situation. In fact, in China the phenomenon of shadow banking is widely spread across urban and rural areas. Useful for people who cannot have access to regular mortgages and credit to banks (usually for a mix of bad credit history and no guarantees in general), they are not under the control of the central bank and very difficult to estimate precisely the figures of this market. But it is also true that the highest percentage of NPL are registered on the loans issued inside this shadow system. And if the total amount of NPL will continue to increase, more and more apartments and offices used inside real-estate backed loans will enter inside the balance sheets of banks and financial institutions, that sooner or later will try to sell in the market, causing a decline in the prices of houses and a situation that will worsen very fast, with a scenario similar to the real estate crises of 2008 in the US.

A big role is played by the People’s Bank of China (the central bank of the Chinese republic), that is continuing to manage and control the value of the interest rates, still kept at a very low value. This allows to many people to have access to a large and cheap quantity of cash that is financing also the real estate market. But for how long this process could last? If the interest rates will start to increase, the value of NPL will increase dramatically all over the country, determining huge losses and the decline in the prices of buildings, often used as bank guarantees. It is also true that for some analysts all those forecasts are way too catastrophic, and the authorities will have the possibility to manage correctly the interest rate, avoiding the market to collapse. China, rather than many other countries, is strictly managed by the authorities and under the actual policy given by the leader Xi Jinping, promoter of a wide control over many aspects of its people, the decline on the process could be managed in order to avoid a new recession. That, looking at the exposure and the position of the Chinese, would spread widely and very fast.

The key point is how this entire credit bubble will be managed by the authorities: it is a big responsibility, that will directly affect the future position of this economical giant, with huge effects on the entire financial market. There are clear signals that this process, as it actually seems to be, cannot last too long. But the future evolution of the situation is still unknown.

 

 

 

Matteo Mamprin

 

 

 

 

 

 

 

 

THE END OF AN ERA?

Non sono molti gli indici e i valori che in ambito finanziario rivestono un ruolo importante come quello del LIBOR, caposaldo del mondo bancario, con il quale tutti prima o poi nella vita, direttamente o non, ci ritroviamo ad avere a che fare. Il LIBOR (London InterBank Offered Rate), nelle sue numerose varianti di durata e valuta, da decenni riveste fondamentale importanza quale sottostante in molteplici strumenti finanziari, per un valore complessivo che si aggira attorno ai 350 miliardi US$, oltre ad essere un riferimento molto comune nel calcolo degli interessi di finanziamento di ogni genere. Nato dalla mente geniale di un banchiere greco nella City di Londra, alla ricerca di un metodo sicuro per poter finanziare dei progetti di sviluppo in Iran (essendo il Paese soggetto già da allora ad un elevato rischio di insolvenza) “the Greek banker” risolse la situazione limitando l’esposizione dei singoli prestatori con un finanziamento erogato parzialmente da diversi istituti bancari, con un tasso di interesse variabile che riflettesse le mutevoli condizioni di mercato, determinato a scadenze prefissate dalle banche prestatrici. Una formula semplice che nel suo piccolo ha cambiato il mondo. Sorge allora spontaneo chiedersi il perché dell’annuncio di Andrew Bailey, CEO dell’Autorità di Condotta Finanziaria, in merito al definitivo pensionamento nel 2021 del LIBOR, ancor più insolita a prima vista in ragione della diffusione di contratti derivati e prestiti basati tutt’oggi su tale indice. Nessuno in realtà si è sorpreso nell’ambiente e anzi molti auspicavano in un intervento così radicale e decisivo. Ma per capire il motivo di questa scelta dobbiamo fare un passo indietro, capendo come questo tasso viene determinato oggi.

La gestione del LIBOR relativamente ad una data divisa (sterline, US$…) è affidata in poche parole ad un pool di grandi banche, esattamente come avveniva nel famoso prestito iraniano. Barclays, UBS, JP Morgan e molti tra i principali market maker del settore, comunicano alla British Banker Association (BBA) a Londra le stime del valore del possibile tasso di interesse, del costo, di un eventuale prestito interbancario a determinate scadenze, sulla base delle attuali e reali condizioni di mercato. Successivamente la BBA si occupa della raccolta dei dati, determinando una media con taglio dei valori estremi (qualche “furbetto” infatti potrebbe decidere di utilizzare un tasso più elevato, attraverso un valore “estremo” che vada a falsare la reale situazione).

Tutto sembra andare per il meglio fino a quando, a seguito di intercettazioni e indiscrezioni di “pentiti” emerge la scomoda verità: il sistema così collaudato presenta in realtà grosse falle, portando alla luce accordi segreti tra banche per alzare artificiosamente i valori dei tassi a loro piacimento, in base alle loro esigenze, o agendo nel senso opposto, andando a comunicare tassi di interesse più bassi, esibendo verso l’esterno una situazione di solvibilità migliore di quella effettiva. Tutto ciò si riflette sull’innalzamento e ribassamento del costo del denaro, nonché nei valori di swap e altri strumenti finanziari, con conseguenze anche sul piano dell’economia reale delle famiglie e delle imprese che vedono erodere da questo meccanismo pilotato i propri risparmi. Il LIBOR infatti viene spesso, nelle sue diverse articolazioni, utilizzato da banche ed istituti di credito proprio come valore di riferimento (usualmente LIBOR + spread deciso dalla banca in base al soggetto richiedente) per il calcolo degli interessi su prestiti e finanziamenti di ogni genere, ed inevitabilmente un suo innalzamento provoca un inasprimento generale del costo del debito per le imprese e per le famiglie.

Tra processi e multe milionarie, il problema viene portato alla luce, mostrando tutte le problematiche che questo sistema presenta alle stesse fondamenta. Spesso alcuni di questi tassi risultavano quasi totalmente distaccati dalla realtà, dal momento che potevano passare dei giorni prima che un determinato tipo di prestito venisse effettivamente richiesto a livello interbancario da un operatore finanziario. Numerose sono le intercettazioni dove alcuni trader di queste banche si accordano telefonicamente o via mail per cercare di aggiustare i tassi in modo da rendere profittevoli le loro posizioni, andando a falsare le medie della BBA con comunicazioni pilotate di comune accordo verso l’ente.

Ma come fare se questo sistema chiaramente non funziona? Tra le molte ipotesi che circolavano, alla fine ogni dubbio è stato risolto dall’annuncio del pensionamento del LIBOR. Il dubbio è su chi cadrà il pesante lascito: sempre più concreta si fa strada l’ipotesi dell’adozione del SOFR (Secured Overnight Financing Rate), un tasso di interesse utilizzato nel Treasury Repurchase Market, immenso mercato (Repo Market) dove banche ed investitori prestano o ricevono degli asset impegnandosi a riacquistarli ad un prezzo più elevato in seguito (includendo in questo modo una sorta di interesse implicito nella transazione). Di fatto la robustezza è comprovata, dato l’immenso traffico di scambi, per un valore stimato pari a circa 800 miliardi US$ ogni giorno. Già alcuni operatori si stanno convertendo al nuovo riferimento per i loro strumenti derivati, anche se meno delle aspettative: trovare infatti sul mercato derivati aventi come sottostante il SOFR non è così comune, in quanto ancora oggi si tende a prezzare utilizzando il LIBOR come benchmark; lo stesso si può dire di prestiti e finanziamenti. Il che comporta un grosso problema, che al momento non è ancora del tutto chiaro come verrà risolto: cosa accadrà ai contratti redatti sul LIBOR come riferimento? Come verrà gestito il passaggio al nuovo indice, non essendoci in molti dei contratti pendenti ancora nessuna indicazione in merito a questo inevitabile passaggio? I mesi che seguiranno delineeranno il nuovo contesto nel quale ci si troverà ad operare, con l’auspicio di andare incontro ad un mercato per quanto possibile libero da distorsioni fraudolente, come nell’idea che ha dato vita al LIBOR decenni orsono.

 

 

Matteo Mamprin