Una ferita al cuore saudita quella inferta appena qualche settimana fa, ad il cuore dell’economia del regno. Un violento attacco da parte di alcuni droni alla più grande raffineria in nel regno saudita ha causato una vera e propria ondata di polemiche e rinnovato la oramai decennale rivalità tra Arabia Saudita e Iran. Potrebbe sorgere spontaneo chiedersi il motivo di tale attacco, secondo fonti internazionali, effettuato da droni provenienti da alcuni gruppi estremisti situati nel sud della penisola arabica, in Yemen. Per comprendere l’accaduto è necessario partire dall’inizio, ripercorrendo gli ultimi decenni di relazioni saudo-iraniane. Due Paesi in un’area geografica da sempre calda e non facilmente gestibile, le due superpotenze si sono spesso scontrate a partire dagli anni ’70 per motivi religiosi ed economico-politici. Religiosi, in quanto, nonostante entrambi a maggioranza musulmana, appartenenti a due ideologie contrastanti: Sunniti in Arabia Saudita, Sciiti in Iran. Entrambi i Paesi visti come leader religiosi per le rispettive fazioni, spesso sfociano in pesanti scontri per difendere l’onore della loro tradizione religiosa. Ma le radici dello scontro sono anche di natura politica ed economica. Con la rivoluzione iraniana della fine degli anni ’70, e la paura della diffusione del pensiero ideologico rivoluzionario anche in Arabia Saudita, la potenza arabica subito si adopera per cercare di evitare il contagio. Senza arrivare mai ad un vero scontro diretto, Iran e Arabia Saudita si sfidano su territori stranieri. Prima in Iraq, poi in Yemen ed in Siria, appoggiando le diverse fazioni locali sulla base della fede religiosa. E nell’ultimo attacco di settembre si è puntato alla raffineria Aramco (la società saudita sotto il controllo del regno colosso nel settore deli idrocarburi) responsabile per la produzione di circa il 5% del totale della produzione di prodotti petroliferi raffinati a livello globale, causando nel giro di poche ore una piccola impennata nel prezzo del petrolio.

Ad oggi l’Arabia Saudita rappresenta uno dei più importati player all’interno dell’OPEC, il consorzio internazionale dei maggiori produttori di petrolio. Anche l’Iran ne fa parte, altro Paese ricchissimo di oro nero, anche se pesantemente svantaggiato dalle sanzioni internazionali imposte dagli Stati Uniti nei confronti delle esportazioni del Paese. Player importante, proprio il colosso a stelle e strisce è tra i maggiori partner commerciali dell’Arabia Saudita, nonché uno dei primi importatori di petrolio ed esportatore di armi e manifattura bellica. Una vera amicizia strategica, che molto dice sui motivi alla base dell’intervento statunitense nella guerra in Iraq innescata nel 2003, con Stati Uniti e Arabia Saudita partner strategici in territorio iracheno. D’altro canto, l’Iran non può dirsi da meno in quanto ad alleanze strategiche. E proprio con un rivale storico degli States che l’Iran ha deciso di schierarsi nel conflitto: la Russia. Attraverso supporto logistico e militare, spinto in parte da motivazioni storiche (nota è la vicinanza del blocco sovietico con il regime di Saddam Hussein), una sorta di guerra fredda è stata combattuta dagli alleati in territorio straniero. Esempio perfetto di proxy war. Ma è proprio il petrolio una delle principali motivazioni dietro agli attacchi più recenti. Risorsa indispensabile e combustibile dell’economia, si tratta ad oggi del principale prodotto esportato dal regno saudita. Un attacco al cuore del Paese, della sua economia, che dalla sua scoperta ha trasformato il Paese in una delle nazioni più ricche e prospere del mondo, rendendo la capitale Riyad una vetrina del lusso e dell’opulenza. Un vero business per le industrie del settore che vedono nel medio oriente uno dei migliori mercati di sbocco commerciale.

Gioielleria, auto, finiture di pregio, in larga parte finanziato dall’immenso export petrolifero del Paese. Ma non di solo lusso vive il Paese. Paese scarso di terre coltivabili, e con un settore manifatturiero poco sviluppato, risulta tra i principali importatori di commodity agricole e semilavorati. Un potenziale attacco all’economia saudita costituisce al momento non solo una minaccia diretta per gli incrementi del costo dei raffinati del petrolio, ma anche indiretto per l’impatto sul potere di acquisto saudita. Senza contare l’importanza strategica del Paese. In un contesto di generale instabilità, la forte presenza dell’Arabia Saudita in medio oriente in qualche modo riesce ad evitare la totale esplosione di un conflitto dagli esiti potenzialmente devastanti. Non tutto oro quel che luccica, e mai come in Arabia Saudita l’analogia risulta essere migliore. Un Paese ricco e potente, ma con un grosso tallone d’Achille scoperto. 10 droni con tecnologia nord-coreana hanno causato un blocco temporaneo della produzione petrolifera di uno dei più grandi player mondiali nel settore. Una minaccia incombente, che mostra ancora una volta un tasso di correlazione elevato tra luogo di estrazione petrolifera e instabilità geopolitica. Che porta ad una riflessione inevitabile relativamente al nostro sistema produttivo, ancorato ad un modello forse vetusto e superato, basato su commodity non rinnovabili provenienti da Paesi instabili. Forse è davvero giunto il tempo di ripensare a questo modello, virare verso sistemi energetici sicuri, stabili ed innovativi. Forse Greta Thunberg ha più ragione di quanto si possa immaginare. (www.invenicement.com/fridays-for-future-dalle-parole-ai-fatti)