FCA-Peugeot, un nuovo colosso in città

Il 31 ottobre: la direzione generale di Fiat-Chrysler Automobiles (FCA) assieme a Groupe PSA (proprietario di Peugeot) ha annunciato a sorpresa l’intenzione di fondere le due compagnie. L’intenzione dietro questa transazione da €40 miliardi è chiara a tutti oramai: creare il quarto gruppo automobilistico mondiale per volumi di vendite e aumentare contemporaneamente la forza di entrambi i gruppi permettendo l’ingresso in nuovi mercati e utilizzando in maniera più efficiente le risorse di ricerca e sviluppo. 

Nonostante non ci sia ancora un accordo formale sul tavolo, stando a quanto suggerito dalle amministrazioni si tratterebbe di una fusione alla pari: 50% a FCA e 50% a Peugeot. Uno dei nodi fondamentali di ogni fusione è già stato affrontato dalle due compagnie: il controllo della nuova super-azienda. 

Dal punto di vista manageriale si parla di 11 manager: 5 verranno nominati da FCA mentre 5 verranno nominati da Peugeot. L’undicesimo giocatore in campo sarà Carlos Tavares, che sarà il numero 10 della squadra. Questa configurazione porta parecchi vantaggi a Peugeot, che vedrà per i prossimi anni una maggioranza francese per quanto riguarda le decisioni della nuova compagnia che si verrà a formare. Italiano sarà invece il vicedirettore, John Elkann. Dal punto di vista della proprietà, la situazione è diversa: voci di campo parlano di una maggioranza in assemblea data a FCA, che porrebbe Exor (la compagnia attraverso la quale la famiglia Agnelli gestisce FCA) in una posizione di maggioranza rispetto agli altri azionisti della nuova compagnia, in particolare di PSA e il governo francese, un triangolo che nelle settimane scorse sembra essersi concluso, ma che potrebbe variare durante successive fasi dell’accordo.

Mettendo da parte discussioni politiche e trame di potere, quali vantaggi potrebbero trarre queste due compagnie da una fusione di questo tipo?

Aperture di mercati: entrambe le compagnie hanno rispettivamente una forte presenza dove l’altra non c’è. FCA ha una buona presenza nel mercato americano, soprattutto grazie alla precedente incorporazione di Chrysler, che poi ha saputo sfruttare guadagnando ulteriormente presenza in Nord America. Da canto suo Peugeot offre una forte presenza nel mercato cinese e quelli emergenti, mercati nei quali FCA non è riuscita a penetrare con efficacia. In luce di queste condizioni, entrambe le compagnie avrebbero da guadagnare un nuovo mercato che potrebbe aumentare notevolmente le vendite.

Risorse complementari: entrambe le compagnie potrebbero usufruire delle risorse prodotte dalla consorte. Dai pezzi di ricambio al co-sviluppo di motori, i costi per queste compagnie potrebbero ridursi drasticamente. Un altro fattore rilevante che si deve leggere in chiave strategica per il futuro è la spartizione dei costi di ricerca e sviluppo per i nuovi modelli delle auto elettriche; tramite questa fusione FCA potrebbe guadagnare terreno in termini di ricerca, avanzando di anni rispetto al punto di partenza. Questo è forse uno dei fattori più importanti di questa fusione: il settore dell’auto sta investendo ingenti somme di denaro mirate allo sviluppo di nuovi modelli da anni e perdere la corsa ai modelli completamente elettrici potrebbe segnare la fine per FCA o qualsiasi altro produttore di auto.

Tuttavia, rimane una domanda: qual è stato fattore che ha reso questa fusione differente dall’ormai fallito matrimonio con Renault? Molti esperti suggeriscono che sia dovuto alla posizione e agli alleati di Renault. La compagnia francese ha infatti un legame molto stretto con Mitsubishi Motors Cop. e Nissan Motor Co., un’alleanza che ha portato il trio ad essere il primo carmaker mondiale. Una possibile fusione con FCA avrebbe compromesso questa rosea situazione e per questo motivo gli analisti sostengono che il tentativo di fusione di giugno non sia andato a buon fine. Con l’annuncio della fusione FCA- Peugeot il governo francese è riuscito a portare sotto la propria bandiera un altro colosso mondiale. 

Rimane tuttavia un tema fondamentale che è stato largamente discusso nel mondo politico: l’occupazione. Stando a quanto riportato da FCA e Peugeot tutti gli stabilimenti delle due aziende dovrebbero rimanere funzionanti e non verranno ricollocati. Alcune voci di corridoi (prontamente smentite dal team di manager) avevano suggerito come questa fusione avrebbe portato alla chiusura di uno o più dei 14 marchi complessivi delle due aziende. Ovviamente tali affermazioni potrebbero avere delle gravi conseguenze dal punto di vista occupazionale in molti paesi europei, Italia, Francia e Olanda in primis. Un altro fattore da considerare è l’ondata di attivismo green che sta prendendo piede anche all’interno dell’establishment europeo, che potrebbe seriamente minare la capacità produttiva e di vendita delle due compagnie qualora i risultati di ricerca e sviluppo in nuove automobili.

In generale il mercato ha reagito positivamente all’annuncio di questa fusione, facendo salire il prezzo di entrambe le aziende considerevolmente in una singola giornata, tipico segnale positivo per quanto riguarda la profittabilità dell’operazione. Ovviamente allo stato attuale è difficile stimare l’impatto sul mercato per il nuovo player: per avere maggiori informazioni, dati, numeri e risvolti economici-occupazionali dovremo aspettare la finalizzazione dell’accordo.

Alberto Fasolo

GREEN WAR – LA GUERRA AI FARMACI AMERICANI

In media, 130 cittadini statunitensi muoiono ogni giorno per overdose di oppiacei. Il dato, tuttavia, non è da imputare solamente ai soliti colpevoli come l’eroina. In America, a fomentare questi numeri, ci sono numerosi farmaci antidolorifici impropriamente utilizzati. La tendenza all’uso (e successivamente all’abuso) di farmaci a base di oppioidi naturali è lentamente diventata una delle epidemie più importati che lo stato ha dovuto combattere in anni recenti.

Il fattore scatenante di questo grave problema sanitario è nato durante gli anni ‘90 quando numerose case farmaceutiche proclamavano l’efficacia e la sicurezza di questi farmaci oppioidi. I farmaci oppioidi replicano nel nostro cervello gli stessi effetti di una nota sostanza stupefacente naturale: l’oppio. Legandosi a particolari recettori, questi farmaci sono un potente strumento per controllare praticamente ogni tipologia di dolore

Grazie alla loro grande efficacia nel controllare diversi sintomi di varia natura (dalla tosse a dolori post-operatori) le prescrizioni per questi tipi di farmaco sono aumentate drasticamente dagli anni ‘90. Nonostante quanto fosse stato dichiarato inizialmente, venne presto scoperto come questi farmaci potessero portare a tolleranza e in molti casi dipendenza fisica. Tuttavia, prima di queste scoperte l’utilizzo e l’abuso di questi farmaci era ormai pratica diffusa tra la popolazione.

Dopo svariati anni, l’abuso di sostanze oppiacee sintetiche e non, è citato come una delle emergenze sanitarie americane. È stimato come il 21-29% dei pazienti affetti da dolori cronici utilizzino in maniera errata suddetti farmaci mentre una percentuale compresa tra l’8% e il 12% sviluppa una forma di disturbo che li porta al consumo di oppiacei per motivi diversi dai sintomi per cui erano stati prescritti. Il problema tuttavia non si esaurisce al consumo di farmaci antidolorifici: a causa del loro potere assuefacente si stima che il 4-6% di coloro affetti da un disturbo legato all’oppio decidano di consumare eroina per ottenere appagamento data l’alta tolleranza ormai accumulata. 

Il problema tuttavia non è solamente sociale ma anche economico: alcuni studi (uno dei più recenti è stato nel 2006) hanno calcolato come il costo complessivo di questa piaga di dipendenza sia di circa 54 milioni di dollari. La maggior conseguenza economica riscontrata è dovuta alla perdita di produttività che queste persone riscontrano a causa di una mancanza di dose. Anche una volta somministrata, gli effetti del farmaco fanno si che la produttività sia altamente ridotta. 

Ma il peso economico di questa crisi non è ancora finito. A partire dal 2017, una speciale commissione è stata incaricata dal presidente Donald Trump per investigare, controllare e arginare questo fenomeno che sembra dilagare incontrollato. La commissione ha pubblicato in via preliminare un report sulla attuale situazione pochi mesi dopo l’incarico. Alcuni mesi dopo la pubblicazione del report la catena farmaceutica CVS ha annunciato che avrebbe posto dei limiti alle prescrizioni che i nuovi pazienti affetti da dolori cronici potessero ottenere dal proprio medico. A partire dal 2018 sono stati investiti ulteriori milioni per svariate campagne di sensibilizzazione al corretto uso di questi medicinali e sono stati stanziati fondi per il controllo e supporto di strutture mediche che cercano di arginare il fenomeno.

Ad oggi la situazione sembra in procinto di un cambiamento, ma la crisi è ancora lunge dall’essere conclusa. Molte case farmaceutiche sono impegnate in diverse corti americane per difendersi dall’accusa di aver messo in commercio farmaci non adatti o non correttamente pubblicizzati causando ingenti danni all’economia e ai cittadini americani, rompendo il rapporto di fiducia che normalmente dovrebbe esserci tra l’industria farmaceutica e il pubblico. Nonostante le compagnie stiano attuando svariate strategie per impedire ulteriori abusi di queste sostanze, i dati non sono ancora incoraggianti. Il consumo e le prescrizioni di oppioidi sono invariati se non in leggero aumento e i casi riportati di dipendenza sono sempre maggiori.

Insomma, gli strumenti che il governo americano sta utilizzando sembrano corretti e potrebbero dare dei buoni risultati, tuttavia i passi più concreti sono stati fatti in anni recenti; prima di poter osservare l’impatto di questi dovremo aspettare anni. Nel frattempo, la crisi continua (quasi) imperturbata.

GREEN FINANCE

Dal giorno della sua elezione come presidente del governo brasiliano, Jair Bolsonaro ha messo in atto una serie di condoni e misure atte a far ripartire il processo di deforestazione dell’Amazonia in nome di una politica di rilancio dell’agricoltura e dell’allevamento nonché dello sviluppo delle infrastrutture del paese. Dopo i disastrosi incendi che hanno colpito la foresta amazzonica, l’opinione pubblica ha spinto il mondo politico a sanzionare il Brasile e alcune sue industrie nonché a fornire svariati milioni di dollari per fermare questi atti di scempio del suolo brasiliano per preservare il nostro pianeta. 

Dal canto suo, il presidente Donald Trump sembra non voler essere da meno: dall’intenzione a lasciare l’accordo di Parigi sul riscaldamento globale entro il 2020 a diverse misure atte a rimuovere lo status di “protetto” da diverse riserve per consentire l’estrazione di gas e petrolio, gli Stati Uniti stanno andando contro la tendenza delle economie più importanti a livello globale. Giusto la settimana scorsa, una nuova proposta è stata varata per permettere alle compagnie petrolifere di non installare i rilevatori delle fuoriuscite di metano sulle nuove condutture e pozzi di estrazione. Pur quanto il metano rimanga nell’atmosfera per minor tempo rispetto all’anidrite carbonica, ha un effetto serra potenzialmente 84-87 volte superiore nell’arco di 20 anni. 

Il cambiamento (e surriscaldamento) climatico mondiale è diventato uno degli argomenti più importanti nell’agenda politica globale grazie alla pressione esercitata da svariati movimenti ambientalisti da ogni dove del mondo. Dallo scioglimento dei ghiacciai alle microplastiche, i segnali che stiamo osservando ci chiedono insistentemente un cambio di rotta. Alcuni paesi come l’Irlanda e la Germania stanno cercando di ridurre le loro emissioni investendo in energie rinnovabili, altri come Francia e Etiopia stanno ricostruendo o creando ex-novo le loro foreste per creare zone “carbon-sink”, cioè in grado di assorbire grandi quantità di CO2e altri gas serra. Tuttavia, nonostante i dati confermino il trend del surriscaldamento globale e della corsa alla sostenibilità delle attività umane, molti paesi si dimostrano ancora avversi a queste tematiche, che vengono viste come di scarsa importanza o non inerenti al benessere collettivo della loro popolazione.

Già ad oggi gli effetti del riscaldamento globale sono visibili, cambiando radicalmente il clima in alcune zone del mondo o esacerbando molti fenomeni atmosferici: basti pensare all’uragano Dorian che recentemente ha devastato le isole Bahamas causando ingenti danni anche alle coste degli Stati Uniti.

 Tuttavia, se il mondo politico sembra prendere decisioni in merito a questo ambito in maniera lenta e poco efficiente, il mondo economico-finanziario sembra invece aver recepito il messaggio chiaro e forte: combattere il riscaldamento globale tramite innovazioni e energie rinnovabili non è solamente un dovere, ma per alcuni è anche diventato un piacere.

Nonostante il trend sia cominciato ben prima, dal 2016 gli investimenti da parte di professionisti del settore nelle compagnie “green” sono aumentati del 34%, con almeno 30.7 trilioni di dollari investiti in queste società (un trilione si quantifica come mille miliardi). Per quanto non esista ancora una definizione precisa e accettata globalmente di “finanza sostenibile”, molti prodotti emessi da società energetiche sostenibili sembrano promettere ritorni competitivi e sicurezze per il futuro. Ad oggi, le principali strategie di investimento che vengono utilizzate nel mondo finanziario si rifanno a particolari tipologie di obbligazioni (ad esempio i “green bonds”, introdotti dalla commissione europea nel 2018) oppure più semplicemente tramite partecipazioni azionarie in quelle compagnie che cercano di dare una svolta positiva ad un futuro climatico incerto.

I così detti green bonds sono particolari tipologie di obbligazioni che permettono alle istituzioni che li emettono di raccogliere finanziamenti, a condizione che questi fondi vengano destinati per lo sviluppo di progetti utili per il nostro pianeta (come ricerca e sviluppo o creazione di impianti). A partire dal 2018 una commissione tecnica è stata incaricata di creare uno standard non obbligatorio a livello europeo, per consentire l’ulteriore sviluppo di questi strumenti tramite una migliore trasparenza e l’obbligo di fornire un report di impatto ambientale in grado di certificare la destinazione dei fondi. A febbraio di quest’anno i green bonds contavano solo per l’1% del mercato obbligazionario europeo nonostante il loro impiego sia stato incentivato dall’Unione Europea e in generale da un trend globale “verde” che punta a trovare soluzioni per salvare il pianeta il più velocemente possibile.

Investire nelle migliori compagnie eco-sostenibili non è tuttavia l’unica strategia adottata dai professionisti del settore: con “exlusionary screening” si intende una strategia per cui svariati fondi di investimento decidono attivamente di non fornire fondi a quelle compagnie viste come colpevoli del riscaldamento globale a causa del loro business o delle loro politiche energetiche poco ambientaliste. Ad oggi questa strategia è la più utilizzata, prendendo il 31% di tutti i fondi destinati alla finanza sostenibile e comunicando un segnale chiaro al mondo industriale: “i vecchi modelli di business basati sullo sfruttamento indiscriminato del nostro pianeta non sono più bene accetti”

Questo enorme incremento di fondi ha molteplici effetti, tra cui l’aumentata velocità di sviluppo di nuove tecnologie e materiali che permetteranno una riduzione ancora maggiore dell’impatto dell’essere umano sull’ambiente. 

Nonostante il tempo a nostra disposizione per agire stia diminuendo sempre più, questo trend nel mondo della finanza potrebbe aiutare a compensare la mancanza di quei fondi che gli stati delle economie più sviluppate non sono in grado di fornire a causa di vari problemi legati alle loro economie stagnanti e ad elevati livelli di debito, nonché alla difficoltà politica di giustificare incrementi in ricerca e sviluppo piuttosto che misure di welfare. 

Forse non è ancora abbastanza, ma è un segnale che le cose stanno cambiando per il meglio. Tutto sommato, il futuro per il nostro pianeta potrebbe essere più green di quanto ci potremmo aspettare.

Fasolo Alberto

FONTI

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