Green Economy: la versione di Bill Gates

Nella settimana in cui Bill Gates ha annunciato l’uscita del suo nuovo libro, – ‘How to avoid a climate disaster’-, il dibattito sul tema del cambiamento climatico torna ad essere più che mai centrale, nelle sue diverse declinazioni. 

Il magnate e filantropo americano, in quello che lui stesso ha definito come il suo ‘Green Manifesto’, promette di esporre una rassegna di soluzioni concrete che possano, in una prospettiva di lungo periodo, coniugare produttività (e innovazione) con la sostenibilità ambientale.

Sin dagli inizi degli anni duemila, attraverso la ‘Bill&Melissa Gates Foundation’, il co-fondatore di Microsoft ha impegnato buona parte della sua enorme fortuna nel cercare di combattere fame e povertà nei paesi a basso reddito. Garantire cibo, acqua e maggiori standard igienici a più persone possibili dunque. L’attività di beneficenza della fondazione non aveva come obiettivo primo, almeno in partenza, la tutela dell’ambiente. Ma le tematiche sono intrinsecamente legate e il passaggio è subito chiaro: si possono combattere malattie e miseria senza un’affidabile e continuativo approvvigionamento di elettricità (possibilmente pulita)? E come minimizzare l’impronta ecologica di questo sforzo? Domande complicate a dir poco. Ampi spazi per lo scetticismo, non per Gates.

Sebbene i suoi ragionamenti abbiano preso forma da questo suo background filantropico, egli prova ad affrontare il problema a trecentosessanta gradi, rivolgendosi al mondo del business (dei paesi ‘ricchi’ e non) che meglio di chiunque altro conosce: le società, con la loro intensa attività di ricerca, devono essere leader e riferimenti reali nella lotta al cambiamento climatico. Amministratori coraggiosi e investitori meno affamati di rendimenti stellari, o quantomeno più pazienti. Chi si sporca le mani si metta in prima linea per la causa. Superare l’ormai nauseante scontro ideologico tra sostenitori e detrattori di Greta, questa l’idea di fondo. 

(*Nota a margine: Mario Draghi, nel suo discorso di insediamento al Senato, ha parlato dell’argomento in modo serio alla dormiente platea italiana. Magari qualcosa viene recepito, spesso nella penisola ci si interfaccia al tema come se si stesse parlando di guerre stellari o peggio, di calcio).

In che senso innovare?

Ma torniamo a noi. In che senso innovare? Gates non è certo un ragazzino, e per questo libero da alcune ingenuità che spesso frenano la riflessione concreta sul tema. Supportare la causa con numeri e dati prima di tutto. Egli è perfettamente conscio che il primo elemento di difficoltà è il costo. E’ in primo luogo qui che la ricerca e gli sforzi collettivi devono concentrarsi: accelerare il processo tecnologico per ridurre i prezzi e aumentare la fruibilità delle fonti rinnovabili.

Un parametro utile per stimare lo stato di avanzamento dei lavori è quello che chiama Green Premiums: dei valori che sintetizzano la differenza di costo tra le risorse che garantiscono energia pulita e quelle ad un maggiore impatto ambientale (cioè i combustibili fossili- petrolio, carbone e gas naturale-). Sostanzialmente una misura quantificabile di quanto costerà raggiungere emissioni zero in ognuno dei principali settori economici in cui i combustibili fossili sono fortemente coinvolti, tra tutti: la produzione di elettricità, la manifattura, l’agricoltura e i trasporti. Fino a quando questo gap non sarà ridotto, molti sforzi potrebbero sembrare (vuota) retorica. 

Come possono attivarsi le imprese?

Lo stesso Bill Gates ha individuato quattro punti fondamentali, che sebbene non possano essere appannaggio di qualsiasi azienda indistintamente, costituiscono comunque un riferimento per agire. Non domani, oggi

Il primo è la mobilitazione dei capitali per ridurre i Green Premiums, investire sostanzialmente. Ci sono dei settori che richiederanno una fatica maggiore e nei quali bisognerà non solo trasformare, ma inventare ex-novo: l’acciaio a basso tenore di carbonio o ai combustibili per le navi cargo e per l’aviazione costituiscono gli esempi più noti. Maggiore è l’incertezza, maggiori sono le insidie. Lo sforzo economico deve avvenire a livello sistemico, ovvero collettivo, e i rischi verrebbero così condivisi e quindi mitigati. Impegnare i mezzi finanziari per far uscire la ricerca dal laboratorio e farla arrivare in azienda sia con operazioni collegate al core del proprio business, sia patrocinando il lavoro di altri giovani imprenditori impegnati nella causa, favorendo di conseguenza network e collaborazioni.

Secondo aspetto: i prodotti che comprano le aziende. E qui ci sono un paio di recenti casi positivi. Attraverso l’Hybrit Project, diverse compagnie produttrici d’acciaio hanno cominciato a introdurre idrogeno pulito come fonte nel loro metodo produttivo. Inoltre, molte utilities stanno comprando soluzioni di lungo periodo per immagazzinare in modo pulito energia elettrica, come ha fatto la Great River Energy. 

Qualcosa invece più alla portata di piccole attività: qualora un’impresa possedesse una flotta di furgoni, ad esempio, potrebbe avere un impatto facendo sì che questi siano elettrici. Ovviamente Gates non vuole prendere in giro nessuno e sa benissimo che ciò non ridurrebbe significativamente l’impronta ecologica di per sé. Ma si tratta, con esempi come questo, di dare segnali al mercato. Spingendo la domanda si permette alla produzione di scalare e successivamente ritrovare un mercato a prezzi calmierati e conseguentemente più accessibili.

Terzo punto. Chi può permetterselo investa in Ricerca e Sviluppo. Qui Gates porta l’esempio di Impossibile Foods, un’azienda in cui lui stesso ha investito e produttrice di sostituti per la carne a base vegetale. Nel 2020 la stessa ha annunciato il raddoppio del budget in R&D, assicurando più avanti prezzi inferiori per i loro hamburger alternativi, così da competere con il mercato tradizionale, per il momento ancora imprendibile. (Conosciamo l’impatto dell’industria agroalimentare e degli allevamenti sull’ambiente). 

L’ultima iniziativa suggerita è che le imprese partecipino attivamente alla formazione delle politiche pubbliche e collaborino al fianco dei governi. 

E’ chiaro che impiegare uno slot di lobbying per convincere un politico della necessità di investimenti pubblici nella ricerca o discutendo di sofisticati incentivi per l’innovazione, potrebbe sembrare secondario rispetto ad altre questioni più urgenti, soprattutto in un periodo come questo. Non lo è, assicura Gates. I coraggiosi saranno ricompensati.

E il pubblico?

Quest’ultimo punto ci ricorda il ruolo fondamentale che gli stessi governi devono e dovranno sempre di più avere in questa sfida epocale. C’è la necessità che questi aumentino sensibilmente la spesa per la ricerca. Addirittura quintupicarla in US nel breve periodo (ci dice sempre il magnate di Seattle) sarebbe un segnale importante da parte del governo federale. L’esborso si avvicinerebbe a quello che lo stesso spende per la ricerca nella salute e porterebbe gli operatori anche privati a disporre di strumenti più seri per affrontare il problema. Inoltre il pubblico, nelle sue diverse declinazioni, compra beni e servizi per miliardi di dollari ed è principale cliente in settori difficili da de-carbonizzare come cemento e acciaio. Qui allora sopravviene la necessità se non addirittura l’obbligo, che questi ingenti acquisti sostengano la domanda di prodotti sostenibili, guidando così in prima linea la transizione.

Gates è convinto che tutti al mondo vogliano fare qualcosa a riguardo e sente che forse un vero cambiamento, anche in prospettiva post-pandemica, potrebbe arrivare veramente. Non come manna dal cielo, ma superando ideologie e speculazione, coinvolgendo chiunque possa avere veramente un ruolo attivo.

Molto dipenderà anche e soprattutto dallo sforzo del mondo produttivo che forse, per la prima volta dopo decenni, dispone di strumenti operativi concreti per aumentare la propria sostenibilità ambientale, grazie anche a lavori come il nuovo Manifesto Verde di Bill Gates.

COVID-19: una sfida ed un’opportunità

Nel 2003, la SARS costrinse la Cina alla quarantena e fu così che il business di Alibaba dovette trasformarsi per sopravvivere. Nel 2020, il Covid-19 costringe il mondo alla quarantena, richiedendo a governi ed aziende risposte intelligenti e soluzioni innovative per affrontare la crisi.

È il momento di innovare.

In Italia e nel mondo, aziende, centri di ricerca, Istituzioni, comunità locali e virtuali stanno cercando di disegnare un nuovo futuro post-pandemia, un futuro che non dovrebbe avere l’aspetto di quello previsto fino a poco tempo fa. Abbiamo visto nascere nuove tecnologie, abbiamo visto governi rispondere con misure di portata straordinaria, finanziamenti senza precedenti e comunità scientifiche più interconnesse che mai. Ci sono molti esempi virtuosi di ciò che questa crisi ha prodotto.

Il CEO di Twitter fa notizia annunciando di permettere ai propri dipendenti di poter lavorare da casa per sempre. Facebook, a ruota, ha dichiarato che la metà dei suoi dipendenti lavorerà da remoto entro dieci anni. Più che di innovazione, in questo caso si tratta di una presa di coscienza di una modalità di lavoro che garantisce il raggiungimento degli stessi risultati ma in modo virus-friendly. Nel pre-crisi lo smart working era considerato uno spreco di risorse, ai tempi del Covid è l’unica via percorribile. Di fronte ad un’unica alternativa, molte aziende, per non fermare le loro attività, hanno dovuto e dovranno investire in apparecchi elettronici e sistemi informatici che renderanno possibile il lavoro da casa. Questa nuova modalità di lavoro ha creato, di conseguenza, delle nuove necessità: una connessione sempre più veloce, potente e garantita e lo scambio di informazioni private in sicurezza. Così, ci sono realtà come Bloola che nascono per supportare le aziende nel processo di digitalizzazione. Ecco che il cambiamento (anche se forzato) crea un circolo positivo che porta innovazione e nuove opportunità.

Nell’ambito della ricerca, menti da tutto il mondo si sono messe al lavoro insieme per dare il proprio contributo e le piattaforme di crowdsourcing sono state essenziali per la comunicazione e la condivisione di risultati tra Università, aziende ed Istituzioni. Jean-Eric Paquet, direttore generale della DG Ricerca e innovazione presso la Commissione europea, si esprime così: “Non ho mai visto una mobilitazione della comunità scientifica come nelle ultime otto settimane. Penso che il livello, la qualità, le interazioni, i risultati resi disponibili, siano senza precedenti.”

In ambito aziendale, molte realtà hanno convertito la loro produzione per realizzare mascherine, gel sanificanti e ventilatori polmonari, ad esempio:

  1. Ford, GE, 3M si sono unite in una partnership per convertire la loro produzione in materiale medico protettivo, mascherine e ventilatori polmonari;
  2. aziende produttrici di liquori (Disaronno e Ramazzotti ad esempio) e birrerie hanno convertito le loro strutture per produrre gel sanificante per mani;
  3. aziende del settore fashion come Zara o Gap hanno iniziato a produrre mascherine per personale sanitario e non.

La mobilità urbana post-covid è un altro settore sul quale molti Stati stanno investendo. Parigi, ad esempio, ha designato un piano da 300 milioni di euro che prevede la costruzione di 650 km di piste ciclabili, una nuova rete di itinerari chiamata metro-bici. Anche Milano si è attivata in questo senso, presentando il cosiddetto piano “Strade aperte”, che prevede la costruzione di nuove aree ciclabili e pedonali per una città più pulita e sicura.

Molti governi hanno stanziato risorse per incentivare la creazione di nuovi strumenti e soluzioni per affrontare la crisi. Gli hackathon si sono rivelati una modalità vincente per la raccolta di idee, un vero e proprio campo libero per nuove proposte da parte di incubatori di start up. L’Estonia è stato il primo paese ad organizzare “Hack the Crisis”, un hackathon online che in appena 6 ore ha raccolto oltre 90 idee. Sulla scia dell’esempio Estone, è stato organizzato un hackathon mondiale e poco dopo l’Ue ne ha promosso un altro rivolto a tutta la comunità. In Italia, ad esempio, è nata Imask, un’invenzione siciliana, una maschera riutilizzabile, riciclabile e conveniente, mentre Isinnova in Lombardia ha trasformato un maschera da sub in un respiratore sanitario. Uscendo dai confini nazionali ci sono ragazzi, come Marta Michans and Vanesa Ortega, che si sono inventati degli strumenti gratuiti per dare sostegno psicologico alle persone durante la quarantena. In Cile una piccola start-up ha creato un prototipo di mascherina, gratuito, scaricabile e stampabile da chiunque nel mondo con materiali classici o eco-friendly. Ne ho citate solo alcune, la lista è molto lunga.

L’innovazione è venuta anche dai governi stessi. L’approccio convenzionale non basta più, si cercano soluzioni alternative e nuovi orizzonti da esplorare. Ne è esempio la proposta del Primo Ministro neozelandese, su suggerimento di impresari e lavoratori, di implementare un nuovo schema che prevede soli 4 giorni a settimana di lavoro e i restanti di svago per stimolare il turismo domestico e quindi la ripresa economica. I risvolti futuri non si conoscono, ma la proposta dimostra un approccio diverso, coraggioso e consapevole che il futuro va affrontato di petto. La Danimarca si muove investendo sull’educazione e sulle energie rinnovabili, attraverso un progetto che prevede la costruzione di isole artificiali per la produzione di energia. Si focalizza quindi su due aspetti chiave del futuro di un paese: i piccoli, futuri leader, e l’ambiente.

Due importanti conclusioni:

1) il virus sta sbloccando l’innovazione dai precedenti vincoli, grazie ad una maggiore propensione all’investimento nell’innovazione con lo scopo di rendere società, aziende e governi più resilienti;

2) disponiamo di un potenziale immenso che è dato dalla nostra creatività e capacità di adattamento a situazioni e contesti sconosciuti.

Entrambi gli aspetti, se ben veicolati e sfruttati, ci fanno ben sperare sul futuro nostro e delle prossime generazioni. Ora più che mai il futuro è nelle nostre mani.

Monica Girardi