La scommessa di Joe Biden

‘The nine most terrifying words in the English language are: -‘I’m from the government and I’m here to help’-’’. Era l’agosto del 1986 quando Ronald Reagan pronunciava delle parole che oltre a segnare il passo dei tempi, riflettevano bene la posizione del presidente repubblicano riguardo a quello che dovrebbe essere (o meglio non essere) il ruolo dello stato nell’economia. Poco importa in questa sede specifica discutere il contesto politico degli anni Ottanta o valutare (a torto o a ragione, è un’altra storia) le argomentazioni a supporto di quel pensiero. Questo inizio aneddotico ci serve piuttosto a contestualizzare, per contrasto, l’operato dell’attuale inquilino della Casa Bianca, Joe Biden. 

La ricetta di Reagan era chiara: deregolamentazione, tasse ridotte, spesa domestica contenuta e fiducia nel libero mercato. Molti aspetti di quella agenda avevano già cominciato ad essere seriamente discussi con l’esperienza presidenziale di Obama, successivamente alla crisi finanziaria del 2008.

Ma mai come oggi una visione politica di quel tipo sembra essere stata accantonata. Il messaggio in arrivo da Washington infatti, in seguito alla recente approvazione del nuovo stimolo fiscale da 1.9mila miliardi di dollari, -noto come American Rescue Plan-, sembra proprio dire: ‘Noi siamo del governo e sì, siamo qua per aiutare’.

Il piano, passato con scarna maggioranza in un Congresso profondamente diviso, mirerà a rilanciare l’economia statunitense nel post-pandemia e metterà a disposizione dei cittadini risorse dirette per rimarginare le ferite ancora aperte dalla crisi dell’ultimo anno. 

Tra le misure chiave sono previste: assegni diretti di 1400$ a chiunque abbia un reddito inferiore a 75000$, un’estensione dello schema federale a supporto della disoccupazione (principalmente sussidi), un aumento del credito d’imposta per i figli a carico (che punta a ridurre del 45% il numero di minorenni in condizioni di povertà) e infine spese più generiche per riaprire le scuole in sicurezza e aiutare le amministrazioni locali. 

Al di là dell’impatto che questa pioggia di denaro avrà (dibattito aperto) su inflazione, economia reale e mercati finanziari, la prospettiva è quella di iniettare fiducia in un sistema che già rivede verso l’alto le proprie previsioni di ripresa, anche grazie all’efficace distribuzione in corso del vaccino.

Volendo ritornare al nostro parallelismo iniziale, il mondo al quale il presidente repubblicano parlava trentacinque anni fa era senza dubbio profondamente diverso. Ma c’è un aspetto culturale su cui fino ad oggi si pensava che la provocazione di Reagan trovasse riscontro, ovvero l’avversione del popolo americano per l’interferenza pubblica nella vita privata dei cittadini (anche e forse soprattutto quando si parla di distribuire soldi). Ma pure questo scetticismo sembra essersi allentato proprio a causa dell’impatto della pandemia, che ha portato buona parte della cittadinanza a percepire la necessità di maggiore protezione da parte del governo centrale. Il Pew Research Centre Poll- un centro di ricerca- ha pubblicato uno studio, una decina di giorni fa, nel quale si evidenzia che oltre il 70% degli americani adulti sembra essere d’accordo con l’imminente misura di welfare. Un dato ancora più interessante indica che il 41% degli elettori repubblicani giudicherebbe giusto il nuovo piano, nonostante nemmeno un singolo senatore repubblicano abbia votato a favore per l’approvazione dello stesso. 

L’American Rescue Plan potrebbe quindi passare alla storia non solo perché le sue dimensioni lo rendono un esperimento fiscale senza precedenti, ma anche perché simbolo di un nuovo approccio politico, che si propone di costruire una rete sociale più solida e protettiva per le fasce in difficoltà della popolazione.

Ma come detto nel titolo si tratta di una scommessa. Il rischio principale, indicato da diversi tra economisti e politici, è che l’economia americana si surriscaldi troppo, proprio per l’eccessiva misura del pacchetto di stimoli. Sostanzialmente si teme un’inflazione galoppante nei prossimi mesi, prospettiva che i mercati stanno osservando con attenzione, come conferma la recente impennata nel rendimento decennale dei titoli di stato americani. La Federal Reserve ha comunque annunciato che ignorerà la crescita dei prezzi nel breve periodo, anche se questa dovesse eccedere il target del 2%: una sorta di compensazione per i precedenti periodi di inflazione sottoritmo. Lo stesso presidente della FED, Jerome Powell, ha recentemente giustificato quest’idea sostenendo che qualora l’economia dovesse surriscaldarsi eccessivamente, si tratterebbe solamente di un periodo temporaneo. La banca centrale continuerà dunque ad ampliare l’attivo del proprio bilancio, comprando asset (in gergo quantitative easing) e mantenendo ai minimi i tassi d’interesse, contemporaneamente ad un atteggiamento più flessibile verso l’inflazione nel breve termine.

Ricapitolando, dovesse avere ragione Biden, questo nuovo approccio potrebbe segnare una svolta epocale nel modo d’intendere la politica negli Stati Uniti: sostanziosi stimoli fiscali diventerebbero la via più diffusa per uscire dalle recessioni future e nel presente l’economia americana troverebbe la strada verso un nuovo sentiero di crescita, anche di lungo periodo. D’altra parte, lo scenario peggiore previsto dagli scettici, è che la Federal Reserve si troverà costretta a dover gettare dell’acqua fredda su un’economia eccessivamente surriscaldata, alzando i tassi per calmierare la crescita dei prezzi. Si tratterebbe di un autentico disastro: eccessivo indebitamento (ad un costo più alto) e un serio danno di immagine, che ridurrebbe la fiducia nelle istituzioni centrali e nella loro capacità di attuare efficaci politiche economiche (il che significherebbe anche rimettersi al pensiero di Reaganiano).

Ad ogni modo questa scommessa è vista da molti come una soluzione necessaria e complessivamente migliore dell’inattività; detto ciò, nessuno dovrebbe mettere in dubbio i rischi legati alla sua grandezza.

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