Con la crisi innescata dalla pandemia e gli aiuti economici in arrivo dall’Unione Europea, è più che mai attuale chiedersi in che modo lo Stato debba aiutare i suoi cittadini più in difficoltà e quale sia il modo più efficace per distribuire le nostre (esigue) risorse.
Il Welfare State nella sua accezione tradizionale, che ha conosciuto la sua età d’oro durante il boom economico (ne avevamo già parlato qui) è di sicuro passato di moda: troppo costoso, soprattutto nei momenti di crisi e recessione. Stando a Reagan e alla Thatcher – i beniamini del neoliberismo degli anni ‘80 e ’90 – le misure di welfare non sarebbero solo inutili, ma addirittura dannose per l’andamento dell’economia, perché impedirebbero al mercato di allocare le risorse in maniera adeguata e ne minerebbero l’efficienza. Ci dispiace deluderli: nonostante i coraggiosi tagli alle spese compiuti dalle loro amministrazioni, pur in parte risanando le casse dei loro Paesi, non sono riusciti a risolvere in maniera soddisfacente quei problemi socioeconomici, come la disoccupazione e la povertà, che avrebbero poi avuto ripercussioni anche sull’economia del nuovo millennio.
Una nuova prospettiva di welfare
Sarebbe bene che lo Stato intervenisse, se non altro per “dare una mano” all’economia di mercato a diventare più efficiente. La prospettiva di welfare che si è fatta largo negli ultimi anni è quella del social investment spending: si tratta di una spesa pubblica finalizzata a risolvere questioni sociali non solo nell’immediato, ma anche a lungo termine. Questo investimento strategico, infatti, oltre a fare in modo che gli stessi problemi non si ripresentino in futuro, punta a creare le basi per un’economia più salda ed efficiente, cosicché da un lato si possa recuperare nel lungo periodo il denaro speso per il welfare, e dall’altro si rendano più ampi i bacini di spesa dello Stato.
Le misure di questo tipo si concentrano soprattutto sulla creazione di capitale umano: gli investimenti sono dunque direzionati all’ambito dell’educazione e della formazione, non solo di tipo terziario (ovvero percorsi professionalizzanti ed universitari) ma a partire dai nidi e dalle scuole per l’infanzia; è stato infatti evidenziato come una precoce scolarizzazione abbia tangibili conseguenze positive anche sul successivo andamento scolastico e sull’inserimento del mondo del lavoro. In più, oltre a costituire un’importante punto di partenza nella formazione dei futuri studenti, crea maggiori opportunità per tutte quelle donne che si sono allontanate, totalmente o parzialmente, dal mondo del lavoro a seguito della maternità.
In breve, con queste policies, lo Stato metterebbe a disposizione dei cittadini tutti gli strumenti per poter partecipare in maniera performante – e possibilmente anche appagante – all’economia della conoscenza che si sta sviluppando negli ultimi anni. Esso costruirebbe una rete strutturata ed istituzionalizzata di welfare che da un lato è in grado di sanare il più possibile le diseguaglianze sociali ed economiche che portano gli individui a vivere in povertà, ma che allo stesso tempo è sostenibile a livello economico anche sul lungo periodo.
Investment spending in Italia
Sembra il welfare dei sogni, ma sarebbe davvero applicabile in Italia? Uno studio utilizza proprio il nostro Paese come esempio di social investment spending potenzialmente letale per le casse dello Stato. In Italia non solo queste misure non produrrebbero i risultati sperati, ma addirittura danneggerebbero l’economia. Perché?
In primo luogo perché l’Italia non ha l’ ”economia giusta”. La chiave delle misure di investment spending sta nel fatto che danno vita a un circolo virtuoso attraverso la creazione di capitale umano, che avrà più probabilità di entrare nel mercato del lavoro. Però in Italia non c’è una diretta connessione tra università e lavoro, anzi, negli ultimi anni il mercato del lavoro per i laureati è diventato ancora più ostile (da qui la fuga di cervelli), a causa della bassa spinta innovativa nelle imprese italiane. Una policy di investimento sociale nel capitale umano dovrebbe quindi essere accompagnata da riforme strutturali che vadano a sbloccare i meccanismi di innovazione in ambito imprenditoriale in maniera permanente ed efficace.
Riguardo alla questione dell’occupazione femminile è chiaro che in Italia manchino delle basi solide ed organizzate di welfare per quanto riguarda la cura di anziani e bambini: queste attività sono gestite quasi interamente dalla componente femminile delle famiglie italiane. Lo Stato, fino ad ora, si è limitato ad elargire alcuni aiuti economici “tappa buchi”, che costituiscono una voce importante della spesa pubblica, senza però esaurire il problema.
Le misure del cosiddetto welfare in Italia sono quindi abbastanza inefficaci, mancano di coesione e struttura. Pensare di aumentare la spesa statale mantenendo questi schemi – adottando quindi solo la retorica e non il vero spirito della spesa d’investimento sociale – si rivelerebbe controproducente, probabilmente aumenterebbe il nostro debito pubblico senza risolvere davvero i problemi del nostro Paese.
Se però avvenisse un cambiamento strutturale, un vero e proprio cambio di paradigma, forse anche l’Italia avrebbe una chance di costruire il proprio futuro in modo inclusivo e sostenibile. Per farlo è necessaria la volontà politica, è fondamentale che i problemi come la povertà, l’abbandono scolastico e la sottoccupazione femminile siano percepiti davvero come nocivi e venga riconosciuta la necessità di risolverli in maniera permanente e decisiva, con un’azione che non si limiti ad arginare il problema nell’immediato, ma che sia capace di guardare al futuro.
Bibliografia:
Jenson J. (2010), Diffusing Ideas for After Neoliberalism: The Social Investment Perspective in Europe and Latin America, Global Social Policy, 2010/4.
Kazepov Y. and Ranci C. (2017), Is every country fit for social investment? Italy as an adverse case, Journal of European Social Policy, Vol. 27.