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Elezioni USA: da che parte stanno i mercati?

Ottobre 12, 2020 by Tommaso Trabona Lascia un commento

I mercati finanziari, storicamente, mostrano insofferenza per l’incertezza del domani. Il 2020, con l’arrivo del virus Covid-19 ce l’ha insegnato bene: le montagne russe dei listini azionari degli ultimi mesi lo mostrano concretamente. Un andamento scostante ha caratterizzato anche l’indice Vix, (CBOE Volatility Index) che segue la volatilità (variazione percentuale del prezzo di uno strumento finanziario in un determinato intervallo di tempo), primo sintomo di scarsa sicurezza dei mercati. Questo particolare indice infatti risulta infatti più sensibile del normale a ridosso delle elezioni presidenziali Usa, come dimostrato anche nelle ultime settimane, specialmente dopo la positività al Covid annunciata su Twitter del presidente Trump.

Di seguito vediamo come potrebbero divergere le future dinamiche finanziarie sotto la nuova guida del candidato democratico, Joe Biden, rispetto a quelle possibili qualora dovesse rimanere in carica l’attuale presidente alla Casa Bianca. E’ comunque importante ricordare che una specifica politica che incontra il favore dei mercati finanziari, potrebbe non essere la più giusta dal punto di vista sociale e esasperare la disuguaglianza che abbiamo visto accrescersi negli ultimi anni. Per questo, è utile piuttosto trovare una sintesi tra le diverse prospettive che sostenga l’economia, ma che punti anche alla corretta distribuzione della ricchezza e ad aumentare il benessere per più individui possibili.

Lo scenario se vincesse Mr. Biden

Molti operatori di Borsa sono preoccupati dalla probabile (stando ai sondaggi) vittoria del 77enne candidato democratico. Una più forte presa di posizione sulla legislazione Antitrust e una maggiore pressione fiscale sulle promesse da Joe Biden in campagna elettorale, potrebbero limitare la libertà di manovra delle grandi aziende quotate e rallentarne di conseguenza l’andamento dei titoli.

Ci si aspetta inoltre, dalla agenda democratica, una particolare attenzione verso le politiche ambientali e un aumento della regolamentazione, specie del settore petrolifero (il cui azionario potrebbe risentirne).

Per contro invece, imprese più innovative e operanti all’interno dei parametri ESG (Environmental, Social, Governance) e quindi tendenzialmente rispettose di canoni ambientali e sociali, potrebbero trovarsi rafforzate da un cambio d’aria politico alla Casa Bianca.

Lo scenario se vincesse Trump

Diversi investitori, invece, potrebbero valutare positivamente un secondo mandato dell’attuale presidente repubblicano sostanzialmente per due motivi: un atteggiamento meno intransigente sulla regolazione finanziaria dei mercati e il ridotto peso delle tasse societarie che, tagliato precedentemente dal 35% al 21% nel 2017 dallo stesso Mr. Trump, sarebbe probabilmente mantenuto anche nei prossimi quattro anni in caso di rielezione.

Entrambi questi elementi, favorendo gli investimenti e rafforzando i bilanci che sarebbero così meno gravati dalle tasse societarie, sono visti di buon occhio dai mercati.

Inoltre, guardando allo storico, dal 2016 ad oggi, sotto il mandato dell’attuale presidente, i mercati hanno avuto una buona performance con un aumento di più del 45% sull’indice di riferimento S&P 500 (che racchiude al suo interno le 500 maggiori aziende statunitensi per capitalizzazione). Ma è stato veramente solo merito della guida politica degli ultimi anni alla Casa Bianca?

Quest’ultimo interrogativo lascia spazio ad un’ulteriore riflessione.

Quanto incidono veramente le elezioni?

Sebbene le elezioni presidenziali siano di importanza evidente, il peso sul mercato delle stesse potrebbe essere meno decisivo di quanto si è spinti a credere.

Per quanto Trump provi ad attribuirsi meriti del buon andamento di Wall Street, mai come in questo periodo paiono esserci troppi fattori indipendenti dalla volontà dell’amministrazione di Washington a incidere sulle piazze finanziarie.

I tassi d’interesse portati a ridosso dello zero dalla FED (come risposta al crack finanziario del 2008) ad esempio, hanno spinto gli investitori a puntare sull’azionario dato il più difficile rendimento dei titoli obbligazionari, meno appetibili in epoca di tassi bassi.

O ancora, la stessa Borsa americana è infatti trainata dalle primissime aziende per capitalizzazione (le solite note: Amazon, Facebook, Apple, Alphabet) la cui crescita esponenziale degli ultimi anni pare non seguire né l’andamento dell’economia reale, né le dinamiche del resto dei mercati azionari, grazie ad altissimi tassi di innovazione e una posizione di controllo sempre più preponderante nei settori di riferimento.

Gravissimo sarebbe dimenticare il fattore che più ha condizionato (Covid a parte) i mercati nell’ultimo periodo: la rivalità commerciale con la Cina.

Biden, infatti, potrebbe portare sul tavolo una dialettica meno aggressiva e più ragionevole nel confronto con il colosso asiatico, in opposizione ad un atteggiamento invece spesso aggressivo del suo sfidante, il quale ha esacerbato la rivalità tra le prime due economie del mondo negli ultimi anni.

Una discussione più improntata al dialogo e meno ostinata potrebbe ridurre l’incertezza sui mercati che stanno scontando il rischio politico della situazione e che, dovesse sfuggire di mano, danneggerebbe senza dubbio l’attività economica statunitense (soprattutto il settore Tech, fortemente integrato nella sua catena del valore con la produzione cinese). Ma nonostante si possano condurre le trattative con metodi differenti, la rivalità commerciale con la Cina, soprattutto in ambito tecnologico, è destinata a caratterizzare il futuro prossimo e non solo.

E infine non possiamo dimenticarci come qualsiasi dinamica di mercato resti ancora, purtroppo, fortemente influenzata dalla pandemia di Covid e dalla tempistica di arrivo del vaccino.

Dunque, nel lungo periodo, paiono essere troppe le variabili da prendere in considerazione per capire veramente quali saranno le prospettive di crescita dell’economia e dei mercati finanziari nel loro complesso, che a loro volta sembrano prescindere (anche e persino) da chi siede nella stanza dei bottoni a Washington.

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Euforia Irrazionale: la Bolla delle Dot-com

Settembre 28, 2020 by Leonardo Fancello Lascia un commento

Nel 1992 gli Stati Uniti furono i protagonisti di un’espansione economica durata fino al 2000. Quel periodo venne dominato da una sorta di <<euforia irrazionale>>, espressione utilizzata da Alan Greespan, allora presidente della Fed, per indicare il sentment degli investitori. Queste parole diventarono poco tempo dopo il titolo del libro di Robert J. Shiller (“Irrational exuberance” in inglese), professore di economia comportamentale dell’università di Yale. Shiller nel libro descrisse i meccanismi che portarono alla formazione della bolla speculativa chiamata Dot-com.

Stock price

Il valore fondamentale di un azione, dove Dt=dividendi al tempo t, r=tasso d’interesse e x=premio al rischio.

Il prezzo di un’azione è uguale al valore attuale scontato atteso della somma dei dividendi futuri. Esso coincide col valore reale dell’azione, anche detto valore fondamentale. Tuttavia, è possibile che un soggetto sia disposto ad acquistare l’azione a un prezzo maggiore del valore di fondamento, in virtù delle aspettative di crescita. L’ondata di acquisti stessa è responsabile dell’incremento del prezzo dell’azione a causa della legge della domanda e dell’offerta.

Perciò, un’azione gonfiata è un titolo finanziario per il quale il prezzo è composto dal valore fondamentale e da elevate aspettative di capital gain.

Fattori strutturali come causa dell’euforia

Shiller indentifica una prima serie di fattori che gonfiarono il mercato, definiti come “strutturali”.

Il motivo principale risiede nel fatto che l’avvento di internet e l’aumento degli utili avvennero nello stesso momento. Perciò, il pubblico fu portato a pensare che i due fenomeni fossero, se non correlati, correlabili in futuro: internet avrebbe potuto far lievitare i profitti. Di conseguenza, i mass media focalizzarono la loro attenzione verso il mercato azionario, annunciando previsioni sempre più ottimistiche riguardo gli andamenti dei mercati e dei guadagni in conto capitale. Le aspettative erano solite superare l’aumento effettivo dei prezzi.

Il Baby Boom fu un periodo caratterizzato da alti tassi di natalità, iniziato nel 1946 e terminato nel 1966, anno in cominciò a rilevarsi una riduzione del tasso di fertilità. Crebbe il timore che non vi sarebbero stati abbastanza lavoratori per finanziare le pensioni di coloro nati nel periodo dell’esplosione demografica. In risposta a quella preoccupazione, i più vecchi iniziarono ad acquistare shares per provvedere all’accumulo di risorse al fine di sostenere il proprio ritiro dal mercato del lavoro. In più, i possessori di piani pensionistici 401(k) cominciarono a favorire l’acquisto di azioni rispetto alle obbligazioni.

Altre ragioni “strutturali” sono l’aumento delle operazioni di trading speculativo intra-day, causato della diminuzione dei costi di transazione dei broker, l’aumento della deregolamentazione e il taglio delle tasse sui redditi da capitale.

Il meccanismo di retroazione

Il rigonfiamento del mercato anni ’90 è visibile specialmente nel grafico del Nasdaq, cresciuto di oltre il 400% in sei anni, toccando i 5000 punti.
Fonte: commons.wikimedia.org

Tutto ciò fu amplificato da un meccanismo chiamato retroazione delle bolle. Secondo questa teoria, gli aumenti iniziali dei prezzi e il fatto che il mercato azionario si trovi in trend positivo portano gli agenti economici a voler essere partecipi di questo rialzo. I consumi più alti derivanti dai profitti invogliano ulteriori investitori a prendere parte al fenomeno. Questo processo continuerà fino a quando si assisterà a uno shock della domanda, il quale causerà una bolla negativa, ossia una repentina diminuzione dei prezzi.

Fattori culturali come causa dell’euforia

Tra i fattori culturali proposti da Shiller vi è principalmente il ruolo dei mezzi di comunicazione come propagatori delle bolle speculative. Essi, attraverso il modo di propagazione di determinate notizie, possono influenzare l’opinione di certi gruppi di persone riguardo l’azionario, nel tentativo di guadagnare l’interesse del pubblico.

In secondo luogo, secondo il professore, i rialzi dei prezzi possono essere anche associati alla diffusione del pensiero di una “nuova era”. Con questa espressione si vuole intendere ottime prospettive economiche o un boom del mercato. Nel caso dell’espansione degli anni ’90, con “nuova era” ci si riferiva a un periodo di prosperità con globalizzazione e avvento tecnologico come mascotte.

Fattori psicologici come causa dell’euforia

Le ragioni di natura psicologica risiedono principalmente nell’incomprensione del giusto valore da attribuire al mercato.

Secondo l’economista, non molti investitori riflettono realmente se il mercato sia troppo o poco quotato. Questo perché i modelli di comportamento umano nelle operazioni di borsa limitano la perfetta lettura della realtà. I limiti vengono definiti ancore e sono di tipo quantitativo e morale. Con la prima categoria si intendono quei limiti dati dalla lettura superficiale del valore degli asset. Infatti, le persone tendono a valutare un titolo azionario in base all’ultimo prezzo che ricordano o secondo una stima media dei prezzi passati. Particolare attenzione è data anche alle cifre tonde (es. S&P 500 a 3000 punti). Con le ancore morali o qualitative si intendono le forze che spingono gli agenti economici all’acquisto di titolo. Queste forze sono anche dette motivazioni e possono essere di diversi tipi. Ad esempio, la propensione capitalistica di investire in azioni è una tipologia (motivazione culturale).

Questi limiti si uniscono anche al problema di eccessiva fiducia dell’uomo nel suo intuito e di conseguenza all’incapacità di riflettere e agire razionalmente.

Altri fattori psicologici comprendono l’effetto epidemico del passaparola sulle decisioni di acquisto di determinate azioni, facendo passare i propri acquisti come convenienti al prossimo, e la tendenza umana ad essere un gregario, quindi di fidarsi delle informazioni di coloro ritenuti esperti.

Sbagliati apprendimenti come causa dell’euforia

Ulteriori motivi evidenziati da Shiller a proposito dell’espansione della dot-com consistono negli apprendimenti sbagliati degli investitori. La maggior parte degli operatori finanziari fu spronata all’acquisto di azioni a causa dell’errata convinzione per cui il mercato azionario anche in caso di crollo risalirà completamente, senza tenere in considerazione, tuttavia, che esso può rimanere a bassi livelli per lunghi periodi. Il pubblico ha imparato che le obbligazioni rendono di meno delle azioni nel lungo periodo. In realtà, anche questa non è una verità certa.

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Un giorno nero per l’oro nero

Maggio 18, 2020 by content

Se già da anni molti esperti si aspettavano un calo nella domanda di petrolio dovuta ai cambiamenti dei consumatori più attenti al green, nessuno avrebbe potuto prevedere cos’è successo il 20 Aprile 2020.

Il WTI ( West Texas Intermediate) ha toccato un minimo storico, forse parlare di minimo sarebbe anche errato. Il prezzo è diventato negativo per la prima volta nella storia: la domanda più lecita che si potrebbe fare sarebbe: cos’è il WTI? Perché ci interessa così tanto?

Tecnicamente parlando, il WTI è il prezzo di un futures sul petrolio: un contratto che, se acquistato oggi, obbliga l’acquirente a comprare una determinata quantità di petrolio in un data futura. Le implicazioni di un prezzo negativo per un futures sul petrolio sono molte, ma se dovessimo riassumere la situazione con una frase, probabilmente sarebbe la seguente: “Oggi verresti pagato perché tu riceva del petrolio ad una certa data nel futuro”. Normalmente i prezzi dei futures sono positivi: qualcuno paga per avere il diritto di comprare un bene ad una data prestabilita all’inizio del contratto; ci sono vari vantaggi nel fare questo ma  non staremo ad elencarli qui. Cosa ha determinato dunque un calo così drastico del petrolio? Ci sono molti fattori da tenere in considerazione: prima di tutto la situazione di completo lockdown causata da COVID-19. Azzerando completamente la necessità di spostamento di gran parte della popolazione si è azzerata anche la domanda per il petrolio. Molte compagnie che sovente utilizzano petrolio come fonte primaria per il loro fatturato hanno smesso di richiederne in quanto non in grado di muovere macchinari o persone come farebbero normalmente. Ovviamente la mancata domanda risale la catena produttiva fino alle raffinerie, che hanno ridotto se non azzerato gli acquisti di petrolio grezzo.  E se non ci sono acquirenti, l’equilibrio di domanda e offerta è destinato a cambiare facendo calare i prezzi.

Tuttavia non è solamente una domanda azzerata l’unica causa di un prezzo negativo, forse non è nemmeno la principale. Di fatto, molti produttori di petrolio (USA in primis, ma anche altre parti del mondo sono prese in causa) stanno finendo lo spazio disponibile per stoccare i barili di oro nero. Per esempio, in India i produttori di greggio hanno occupato quasi il 95% dello spazio disponibile per immagazzinare petrolio. E quando finirà lo spazio? Alla scadenza del contratto, chi aveva comprato un futures riceverà fisicamente del petrolio in barili. Generalmente solo chi usa in maniera diretta il greggio ha dello spazio per immagazzinare le botti, tutti gli altri compratori pagano i produttori per mantenere nei loro magazzini le partite di petrolio, che poi vengono utilizzate o rivendute qualora fosse necessario per la propria attività. Ma qualora non ci dovesse essere spazio il produttore sarebbe costretto a consegnare la merce. Che implicazioni ci sono? Qui aiuta molto l’immaginazione: vi si presenta alla porta di casa un fattorino chiedendovi dove potrebbe scaricare i vostri 1000 barili di petrolio acquistati sul mercato. Ovviamente la situazione non è delle più piacevoli: dovreste trovare (e pagare) lo spazio per immagazzinare quelle botti, senza sapere perlopiù quando le potrete vendere date le circostanze dell’economia globale rallentata da un virus senza precedenti. Quando i trader hanno realizzato che i produttori avrebbero finito lo spazio a breve si è scatenata la corsa alla vendita: tutto pur di non vedersi realizzata la situazione descritta sopra. Ecco dunque come alcuni sono stati disposti a pagare per vendere petrolio  a qualcun altro, ecco spiegati i prezzi negativi. E i produttori? Dal canto loro la produzione di petrolio è stata rallentata ma non azzerata completamente, probabilmente a causa dei costi per far ripartire i lavori e in alcuni casi anche a causa di pressioni politiche. Questo ha portato ad una depressione ulteriore dei prezzi del petrolio in quanto lo spazio per l’immagazzinaggio continua a dimiuire.

 Anche se temporaneo (ad oggi il petrolio ha un prezzo che fluttua attorno ai $24 barile), il tour nel reame dei prezzi negativi ha fatto riflettere molto, in particolare tutte quelle nazioni la cui sopravvivenza economica dipende dal prezzo del greggio. Un esempio? Dopo il crollo dei prezzi la Nigeria ha dovuto chiedere un prestito di emergenza di $7 miliardi per soddisfare altri pagamenti e l’Iraq non si più permettere di pagare milioni di lavoratori.

Se per molte nazioni ci sono state delle conseguenze importanti dal crollo dei prezzi, per noi cosa significa? Per il momento possiamo già osservare dei prezzi minori per benzina e altri derivati del petrolio. Tuttavia non è facile capire quali saranno le conseguenze nel lungo periodo di un prezzo eccessivamente basso del petrolio. Il prezzo tornerà a salire a causa di una drastica riduzione della sua produzione? Molte compagnie petrolifere saranno costrette a licenziare lavoratori o a chiudere le serrande del tutto? Oppure il prezzo rimarrà ai livelli correnti, favorendo il suo utilizzo da parte dei consumatori e rallentando lo sviluppo di tecnologie per l’energia rinnovabile? Non ci resta che osservare.

Fasolo Alberto

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