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ESG – Investire con un occhio al futuro

Giugno 14, 2020 by content

Environmental, Social, Governance; ESG è un acronimo che negli ultimi anni è diventato sempre più popolare nel mondo della finanza e degli investimenti. Già con l’aumentare della sensibilità dell’investitore medio alle tematiche ambientali queste compagnie e fondi hanno visto un aumento vertiginoso dei flussi in entrata da parte degli investitori negli anni precendenti. Questi prodotti tuttavia vengono ancora accolti con un po’ di scetticismo da molteplici professionisti, in quanto per molti il trade-off sostenibilità ritorno non è del tutto lineare. A far cambiare idea a più di qualcuno però potrebbe esserci l’attuale situazione di pandemia provocata da COVID-19.

Infatti si è osservato come nonostante il pesante calo delle borse dovuto alla riduzione sostanziale dell’attività economica, molti fondi ESG abbiano dato dei ritorni comparabili se non addirittura superiori a quelli di molte compagnie tradizionali e indici azionari come lo SP500; un fattore decisamente non di poco conto, soprattutto per un investitore in cerca di sicurezze per il futuro per sé e per gli altri. Si potrebbe infatti dire che questa pandemia sia stata il primo vero test per questi strumenti, che fin ora avevano beneficiato di condizioni economiche favorevoli (soprattutto nel mercato americano). Dimostrando la loro resilienza a movimenti avversi del mercato caratterizzati da un cambiamento drastico nei fondamentali, gli strumenti ESG potrebbero essersi guadagnati la fiducia di molti scettici e aver conquistato definitivamente coloro che già prima erano interessati a questi prodotti. Per questi motivi molti fondi ESG hanno visto un afflusso record di denaro nel primo trimestre 2020, durante il picco della pandemia. Stando a dati Morningstar, i fondi sostenibili hanno visto entrate per $45mlrd su un totale di $384mlrd del mercato globale degli investimenti; un record considerando i valori registrati negli anni precedenti. È stato poi riscontrato come la tendenza ad investire nel sostenibile sia collegata ad un’altra tendenza in movimento da molto più tempo: infatti quasi l’80% del denaro in entrata nel settore è stato investito in fondi passivi, possibilmente spinti da investitori in cerca di acquisti a prezzi convenienti grazie ai minimi raggiunti durante il periodo di massima diffusione della pandemia.

C’è poi un’ulteriore considerazione da fare: ai loro albori le compagnie ESG incentravano il loro marketing e appeal soprattutto nella “E”: Environmental. Ma in un mondo post COVID-19 la situazione potrebbe cambiare: molti investitori sono ora preoccupati non solo come l’ambiente viene trattato, ma anche come le compagnie si comportino nei confronti dei loro dipendenti. Social e Governance potrebbero dunque avere un peso ben maggiore per gli investitori e per le compagnie da adesso e per il futuro; garantire un ambiente di lavoro salutare per i propri dipendenti potrebbe aumentare considerevolmente l’immagine e la stima della compagnia, aumentando di conseguenza il numero di potenziali investitori. Questo fenomeno potrebbe però avere una duplice spiegazione: da un lato si potrebbe pensare a questi investitori come persone che guardano al futuro e in cerca di compagnie in grado di realizzare questa visione nel modo più green e socialmente responsabile che esista. Da un altro lato, qualcuno potrebbe cinicamente ipotizzare come questa preferenza per una governance sostenibile non sia altro che una forma di protezione: nell’eventualità di una seconda ondata di pandemia, le migliori società saranno infatti quelle con la maggiore attenzione al benessere e alla protezione dei propri lavoratori, che saranno incentivati a dare il massimo nonostante i difficili momenti che si potrebbero attraversare.

Quale che sia la versione corretta,  questo tipo di investimenti sembrerebbe essere qui per rimanere nel futuro.  L’idea che le compagnie debbano perseguire i profitti e gli interessi degli azionisti ad ogni costo sta lentamente declinando, passando a quella che alcuni potrebbero definire “stakeholder capitalism”. Che da questo difficile momento in cui ci troviamo in guerra con un nemico invisibile stia per nascere una nuova forma di economia e mercati finanziari dove anche l’attenzione ai vari aspetti della vita influisce pesantemente sull’andamento economico?

Fasolo Alberto

Filed Under: Blog Tagged With: COVID-19, ESG, Green Finance

TASSI SOTTOZERO – Quando troppo è troppo

Dicembre 9, 2019 by Matteo Mamprin

Il zero lower bound principle è uno dei quei caposaldi onnipresenti in tutta la teoria classica e neoclassica in ambito macroeconomico. Molto semplicemente, tutti avevano teorizzato l’impossibilità di poter ottenere tassi di interesse negativi. Ma come sempre, la politica economica è pronta a sorprendere e, a seguito di una delle più pesanti crisi economiche della storia all’uomo conosciuta, le banche centrali si trovano costrette a ricorrere ad una nuova tipologia di strumenti di politica monetaria, di carattere non convenzionale. Il famoso QE, di cui la FED (la Banca Centrale degli USA) si è fatta promotrice e prima utilizzatrice, passato poi tra le manovre più importanti della BCE, ha permesso tagli di interi punti percentuali del tasso di interesse, al fine di stimolare l’economia e favorire l’investimento, motore di crescita e sviluppo nel breve e nel lungo periodo. Una situazione che, sebbene nel nostro Paese non abbia avuto i risultati sperati in aumento del credito alle imprese, facendo registrare un calo di qualche punto percentuale nel rapporto banche CER degli ultimi mesi, ha invece fatto registrare una crescita del debito contratto nell’eurozona. Con una situazione decisamente più complicata sul fronte del debito pubblico. Con un rapporto debito/PIL attorno al 130%, date le dimensioni della nostra economia, si rende bene l’idea di come una minima variazione al rialzo del tasso di interesse (in particolare relativamente alla diminuzione del programma QE inaugurato dall’era Draghi alla guida della BCE) potrebbe prospettarsi un colpo durissimo. L’attuale situazione, da molti definibile eccessivamente artificiale e slegata dalle logiche di mercato, permette tuttavia al nostro Paese di re-finanziare l’ingente debito pubblico ad un costo accessibile, conscio di avere nella BCE un acquirente importante sulla quale poter contare. E viste le premesse, in pochi sembrano contare in un riposizionamento dopo il cambio al vertice della BCE verso un taglio drastico della politica espansiva attuata fino ad ora. Ma per quanto necessario tale manovra sia per la sostenibilità della stessa eurozona, la BCE si trova in una situazione davvero pericolosa. Con una politica monetaria espansiva particolarmente spinta, trovarsi in una situazione di potenziale crisi all’interno dell’area euro potrebbe portare ad uno stallo molto pericoloso. Con la Germania, traino economico dell’eurozona, verso una prospettata recessione tecnica dato da un costante calo della produzione industriale negli ultimi trimestri, la possibilità non sembra nemmeno così remota. E dati i tassi di interessi già allo 0% se non negativi, un taglio dei tassi si preannuncia chiaramente impossibile. Al momento il costo di questi tassi negativi pesa quasi esclusivamente sulle banche commerciali e la loro redditività. A seguito delle riserve obbligatorie da tenere presso la banca centrale da parte degli istituti privati, sottoforma di deposito effettuato presso la banca centrale, le banche commerciali vedono i propri depositi andare a ridursi giorno dopo giorno. Non solo un investimento improduttivo (tale denaro non genera interesse), ma addirittura a perdere per tutti quegli operatori. Una pressione tale da indurre la stessa BCE a ridurre l’ammontare minimo richiesto come deposito presso i propri conti dal 2% all’1% dell’ammontare complessivo dei depositi dei correntisti (e altre aree del passivo bancario) in modo da evitare il declino negli indici di profitto degli istituti in area euro. Fino a giungere alle recenti proposte (in alcuni Paesi già realtà) di riportare tassi di interesse ai nei conti depositi dei correntisti (come proposto dal CEO di Unicredit). Proposta per molti difficile da attuare, vista la soglia psicologica dei correntisti verso un tasso di interesse con segno negativo. Alcune proposte più estreme vengono da una potenziale apertura della banca centrale ai privati, che permetterebbe una politica monetaria decisamente più efficace attraverso un controllo diretto della moneta e non indiretto come oggi tramite il controllo delle banche commerciali. 

E in tutto questo scenario nei mercati finanziari si sta assistendo ad una vera e propria ricerca di ritorni. Tra i best buy del momento abbiamo prodotti basati su leveraged loans, frutto di una azione di rebranding in grande stile. Trattasi in grossa parte prestiti concessi a soggetti con una storia creditizia problematica o già particolarmente indebitati o, come molti li conoscono, mutui subprime. Una quantità addirittura superiore a quella precrisi del 2008, e, secondo dati S&P Global, in crescita sul mercato americano ed europeo. Una posizione di estremo pericolo nel caso di un movimento dei tassi al rialzo, con il rischio di un aumento esponenziale dei default sul debito contratto. Con la Germania ed altri Paesi invocanti uno stop alla politica eccessivamente interventista finora portata avanti dalla BCE preoccupati da un potenziale rischio inflazione, e una generale sensazione di impotenza da parte delle autorità centrali, la situazione presenta numerosi rischi da tenere sotto controllo da tutti, dagli operatori di mercato ai comuni risparmiatori.

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FCA-Peugeot, un nuovo colosso in città

Novembre 25, 2019 by Alberto Fasolo

Il 31 ottobre: la direzione generale di Fiat-Chrysler Automobiles (FCA) assieme a Groupe PSA (proprietario di Peugeot) ha annunciato a sorpresa l’intenzione di fondere le due compagnie. L’intenzione dietro questa transazione da €40 miliardi è chiara a tutti oramai: creare il quarto gruppo automobilistico mondiale per volumi di vendite e aumentare contemporaneamente la forza di entrambi i gruppi permettendo l’ingresso in nuovi mercati e utilizzando in maniera più efficiente le risorse di ricerca e sviluppo. 

Nonostante non ci sia ancora un accordo formale sul tavolo, stando a quanto suggerito dalle amministrazioni si tratterebbe di una fusione alla pari: 50% a FCA e 50% a Peugeot. Uno dei nodi fondamentali di ogni fusione è già stato affrontato dalle due compagnie: il controllo della nuova super-azienda. 

Dal punto di vista manageriale si parla di 11 manager: 5 verranno nominati da FCA mentre 5 verranno nominati da Peugeot. L’undicesimo giocatore in campo sarà Carlos Tavares, che sarà il numero 10 della squadra. Questa configurazione porta parecchi vantaggi a Peugeot, che vedrà per i prossimi anni una maggioranza francese per quanto riguarda le decisioni della nuova compagnia che si verrà a formare. Italiano sarà invece il vicedirettore, John Elkann. Dal punto di vista della proprietà, la situazione è diversa: voci di campo parlano di una maggioranza in assemblea data a FCA, che porrebbe Exor (la compagnia attraverso la quale la famiglia Agnelli gestisce FCA) in una posizione di maggioranza rispetto agli altri azionisti della nuova compagnia, in particolare di PSA e il governo francese, un triangolo che nelle settimane scorse sembra essersi concluso, ma che potrebbe variare durante successive fasi dell’accordo.

Mettendo da parte discussioni politiche e trame di potere, quali vantaggi potrebbero trarre queste due compagnie da una fusione di questo tipo?

Aperture di mercati: entrambe le compagnie hanno rispettivamente una forte presenza dove l’altra non c’è. FCA ha una buona presenza nel mercato americano, soprattutto grazie alla precedente incorporazione di Chrysler, che poi ha saputo sfruttare guadagnando ulteriormente presenza in Nord America. Da canto suo Peugeot offre una forte presenza nel mercato cinese e quelli emergenti, mercati nei quali FCA non è riuscita a penetrare con efficacia. In luce di queste condizioni, entrambe le compagnie avrebbero da guadagnare un nuovo mercato che potrebbe aumentare notevolmente le vendite.

Risorse complementari: entrambe le compagnie potrebbero usufruire delle risorse prodotte dalla consorte. Dai pezzi di ricambio al co-sviluppo di motori, i costi per queste compagnie potrebbero ridursi drasticamente. Un altro fattore rilevante che si deve leggere in chiave strategica per il futuro è la spartizione dei costi di ricerca e sviluppo per i nuovi modelli delle auto elettriche; tramite questa fusione FCA potrebbe guadagnare terreno in termini di ricerca, avanzando di anni rispetto al punto di partenza. Questo è forse uno dei fattori più importanti di questa fusione: il settore dell’auto sta investendo ingenti somme di denaro mirate allo sviluppo di nuovi modelli da anni e perdere la corsa ai modelli completamente elettrici potrebbe segnare la fine per FCA o qualsiasi altro produttore di auto.

Tuttavia, rimane una domanda: qual è stato fattore che ha reso questa fusione differente dall’ormai fallito matrimonio con Renault? Molti esperti suggeriscono che sia dovuto alla posizione e agli alleati di Renault. La compagnia francese ha infatti un legame molto stretto con Mitsubishi Motors Cop. e Nissan Motor Co., un’alleanza che ha portato il trio ad essere il primo carmaker mondiale. Una possibile fusione con FCA avrebbe compromesso questa rosea situazione e per questo motivo gli analisti sostengono che il tentativo di fusione di giugno non sia andato a buon fine. Con l’annuncio della fusione FCA- Peugeot il governo francese è riuscito a portare sotto la propria bandiera un altro colosso mondiale. 

Rimane tuttavia un tema fondamentale che è stato largamente discusso nel mondo politico: l’occupazione. Stando a quanto riportato da FCA e Peugeot tutti gli stabilimenti delle due aziende dovrebbero rimanere funzionanti e non verranno ricollocati. Alcune voci di corridoi (prontamente smentite dal team di manager) avevano suggerito come questa fusione avrebbe portato alla chiusura di uno o più dei 14 marchi complessivi delle due aziende. Ovviamente tali affermazioni potrebbero avere delle gravi conseguenze dal punto di vista occupazionale in molti paesi europei, Italia, Francia e Olanda in primis. Un altro fattore da considerare è l’ondata di attivismo green che sta prendendo piede anche all’interno dell’establishment europeo, che potrebbe seriamente minare la capacità produttiva e di vendita delle due compagnie qualora i risultati di ricerca e sviluppo in nuove automobili.

In generale il mercato ha reagito positivamente all’annuncio di questa fusione, facendo salire il prezzo di entrambe le aziende considerevolmente in una singola giornata, tipico segnale positivo per quanto riguarda la profittabilità dell’operazione. Ovviamente allo stato attuale è difficile stimare l’impatto sul mercato per il nuovo player: per avere maggiori informazioni, dati, numeri e risvolti economici-occupazionali dovremo aspettare la finalizzazione dell’accordo.

Alberto Fasolo

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UN ORDINE MONDIALE TUTTO MADE IN USA

Novembre 11, 2019 by Monica Girardi

Leggi come introduzione il nostro precedente articolo: Il dollaro americano: la valuta più potente al mondo

Ad oggi, anche se non agli stessi livelli del dopoguerra, il dollaro americano è la valuta più potente del mondo, e su questo non si discute.

Gli Stati Uniti di questo ne hanno beneficiato e ad oggi si confermano una delle economie più rilevanti al mondo. Due sono le considerazioni da fare: 1) L’America è potente in quanto tale, un’astuta pianificatrice; 2) L’America è potente perché è patria della FED. 

Torniamo un pochino indietro nel tempo, alla fine della Seconda guerra mondiale, e proviamo ad immaginare economie come la Germania, la Francia, l’Italia, che, vincitori o vinti, si ritrovavano in gravissime condizioni. Vite ed economie da ricostruire. C’era bisogno di aiuto e in qualche modo bisognava ripartire, ma una ricostruzione basata sui propri fondi era impensabile. 

Oltre oceano c’erano i potenti Stati uniti, che nonostante la loro partecipazione alla guerra, continuavano ad avere un’economia solida e prosperosa. Già durante la guerra si erano vestiti del ruolo di soccorritori nei confronti dei paesi europei ed ancora una volta, anche se in modo forse un po’ più inusuale, decisero di prestare aiuto ad un Europa in disperato bisogno di importare. Aprirono, così, le porte dei propri mercati a tariffe praticamente gratuite e pattuirono il famoso accordo di Bretton Woods (da ora BW). Vennero inoltre istituite delle organizzazioni come la World Bank, la World Trade Organization o WTO e l’IMF o Fondo monetario internazionale affinché elargissero prestiti alle economie europee. 

Tutto ciò aveva permesso all’Europa di raccogliere le proprie forze e ripartire per la grande ricostruzione. Nessuno aveva potuto lamentarsi, alla richiesta di aiuto c’era stata una risposta pronta ed efficace. 

Mentre l’Europa sospirava, l’America conquistava. Di certo tutto ciò non era un’opera di carità, specialmente se parliamo di Stati Uniti d’America, bensì un piano che prevedeva di fornire aiuto economico in cambio di controllo. Fu così che si siglarono una serie di accordi ed iniziative, quali:

  1. L’accordo di BW con il quale si auto confermò a quel tempo come l’unico Stato che poteva coniare nuova moneta per fini commerciali internazionali. Ora non esiste più questo accordo, ma l’America e la sua moneta rimangono due colossi mondiali.
  2. L’istituzione, sotto il suo controllo, degli organismi finanziari sopracitati, ad oggi non più con le stesse funzioni iniziali, ma pur sempre vigenti e attivi.
  3. L’istituzione della NATO, organismo atto a preservare la sicurezza globale, ovvero un sistema di controllo tutto americano. 
  4. L’apertura delle porte dei suoi mercati per esportare prodotti ai paesi Europei, a patto che i trasporti venissero effettuati tramite navi americane, avendo così il pieno controllo degli scambi commerciali.

All’Europa non era stato chiesto nulla in cambio in termini economici, ecco perchè definirlo un inusuale aiuto: sotto le vesti di una donazione, c’era un piano di conquista del controllo finanziario e della sicurezza mondiale. Tutto ciò che riguardava la valuta, il commercio estero e la sicurezza era sotto il controllo di Washington.

Si andava così delineando una struttura di politica internazionale che vedeva l’America al vertice e alla base tutti gli altri paesi. A parte questo, l’Europa non poteva che essere riconoscente degli aiuti ricevuti ed il commercio internazionale aveva raggiunto livelli mai visti prima. Non c’era motivo di opporsi a questa nuova politica, tanto che anche paesi come il Giappone decisero di firmare il patto di BW perché significava essere parte di un grande meccanismo che avrebbe portato benefici a chiunque ne avesse preso parte. 

Il ruolo dell’America nel 2019 non è più lo stesso. Ci sono economie emergenti dalle quali si sente minacciata, ci sono valute che stanno aumentando il loro potere di scambio e ci sono dinamiche geo politiche diverse. Nonostante ciò rimane ancora oggi la più potente, non stabilendo più da un lato, l’ordine monetario, vista la caduta dell’accordo di BW, ma la “sicurezza” è sicuramente gran parte ancora sotto il suo controllo. Guerre tecnologiche, guerre dei dazi, sono tutte sintomo della paura di perdere tutto ciò che finora è riuscita a conquistare. 

L’America è potente perché qui si colloca l’istituto finanziario più influente del mondo, la FED o Federal Reserve, una Banca le cui decisioni e scelte sono attese da tutto il mondo vista la loro influenza globale. 

Dopo la crisi del 2008, le decisioni della FED caratterizzarono i primi importanti step per la ripresa, per il riassetto delle condizioni finanziare della maggior parte delle banche mondiali. Ciò che è accaduto, di fatto, ha reso il dollaro e la FED più potenti, perché tutto il sistema bancario mondiale ha, paradossalmente, ancor più di prima, fatto affidamento sul dollaro, aumentando il proprio debito in valuta americana. Tra le varie manovre messe in atto per prevenire una crisi di liquidità come quella vissuta durante il crash, c’è stato l’aumento del cosiddetto Fed Fund Rate, ovvero il tasso di interesse sugli scambi interbancari. Risultato? Prendere in prestito dollari è diventato ancora più oneroso.

Le politiche monetarie della FED hanno un impatto globale rispetto alle altre banche centrali, come appurato nell’articolo precedente, ci sono però alcune considerazioni da fare. Gran parte di coloro che richiedono prestiti nei paesi emergenti lo fanno in dollari perché significa avere accesso a mercati più liquidi e grandi, proteggendo il prestito da eventuali brusche fluttuazioni dei tassi di cambio delle valute locali minori. La maggior parte di questi investitori, ad esempio aziende, mantiene il proprio business in valuta locale. Questo vuol dire che il tasso di interesse a cui l’investimento dell’azienda è sottoposto è il prezzo del prestito in termini di valuta locale. Perciò, se la Fed riduce i tassi di interesse, e quindi il costo del prestito dovrebbe ridursi, l’investitore può non beneficiarne, perché  l’investimento è esposto all’andamento del tasso di cambio valuta locale/USD. Se si prevede un apprezzamento del dollaro, quel prestito sarà più oneroso in termini di valuta locale. Ecco che quindi le decisioni della FED sono solo uno dei tanti fattori che gli investitori da tutto il mondo devono considerare, come l’andamento dei tassi di cambio e le risposte politiche delle altre banche centrali rispetto a determinate decisioni della FED.

Ancora una volta: perché America in quanto tale, perché patria della FED e perché coniatore di dollari, fattore che gli dona l’esorbitante privilegio di emettere debiti nella propria valuta e di gestire persistenti deficit apparentemente senza conseguenze.

L’America fa eccezione, sempre. 

L’IMF e la WTO sono nate con l’accordo di BW e avrebbero dovuto essere dismesse quando l’accordo è venuto a mancare, alcuni analisti criticano, eppure sono ancora in piena attività.

Ha un debito che supera i 22 mila miliardi di dollari, ma la sua economia è ancora considerata la più solida. Non si è mai smesso di investire in America, nemmeno dopo il 2008, anzi, come abbiamo visto, paradossalmente si è iniziato ad investire di più. 

L’America va oltre i modelli economici, spiega fenomeni che non sono spiegabili con le teorie economiche tradizionali. Uno stato con una yield curve negativa non può essere considerato un’economia solida, eppure il comportamento degli investitori dimostra il contrario. È vero, però, che la crisi del 2008 ha dimostrato che anche le teorie economiche keynesiane non sono infallibili ed al giorno d’oggi il sistema finanziario è talmente complicato, intrecciato ed imprevedibile che risulta sempre più difficile trovare una spiegazione a tutto ciò che accade. 

“We are gonna make America, great again!” Trump continua ad affermare. Un motto e un presidente che rappresentano in tutta la loro interezza lo spirito di un’America potente e che continua a volersi affermare nel mondo ma che si ritrova a difendere il suo dominio con tutti i mezzi a sua disposizione contro grandi giganti economici oltreoceano che avanzano e destano non poca preoccupazione.

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IL DOLLARO AMERICANO: LA VALUTA PIU’ POTENTE DEL MONDO

Novembre 3, 2019 by Monica Girardi

Secondo il Fondo Monetario Internazionale, FMI, il dollaro americano è la valuta più popolare, seguita da euro e yen giapponese. I dati aggiornati al primo trimestre 2019 riportano che il 61% delle riserve delle banche centrali di tutto il mondo è in dollari.

Circa il 40% del debito mondiale è in valuta americana, equivale a dire che le banche straniere hanno bisogno di molti dollari per condurre il loro business, ragione per cui la crisi del 2008 non si è limitata ai confini statunitensi. Dei 27 trilioni di dollari di debito delle banche non americane, 18 trilioni erano in dollari.  A quel tempo la FED dovette aumentare la cosiddetta linea di swap del dollaro (dollar swap line), che non è altro che un accordo tra due o più banche centrali per lo scambio delle rispettive valute. La FED decise di aumentarla permettendo così alle banche di ricevere importi in dollari statunitensi in cambio del loro controvalore in euro, evitando così che le banche di tutto il mondo rimanessero con le tasche vuote.

Il fatto che sia la moneta che circola maggiormente nel mercato è solo uno dei fattori che dimostra quanto il suo ruolo sia fondamentale. Più di un terzo del GDP mondiale si riferisce a paesi che hanno fissato il valore della loro valuta al dollaro o che lo hanno adottato come moneta ufficiale. Nel forex (foreign exchange market ovvero il mercato di scambio valute estere) il dollaro regna, circa il 90% degli scambi forex sono in dollari. 

Il dollaro è la valuta più potente del mondo perché il suo valore è sostenuto da un’economia solida e che da sempre è considerata tale, ma come ha ottenuto questa posizione di egemonia rispetto a tutte le altre valute? Nel mondo ci sono 185 valute diverse, teoricamente tutte possono essere potenziali sostituti del dollaro, ma non lo sono, per le ragioni che vi illustrerò.

L’ascesa del dollaro americano coincise con l’accordo di Bretton Wood del 1944, un importante accordo internazionale che siglò l’inizio della trasformazione del sistema monetario internazionale. Le rappresentanze di 44 Stati, 730 partecipanti si riunirono per elaborare nuove regole e procedure per creare un nuovo Sistema monetario. Il sistema vigente fino ad allora, il cosiddetto sistema aureo, consisteva nel fissare il valore della moneta sulla quantità di oro (gold standard). L`economia dipendeva sostanzialmente dalla circolazione e dalla disponibilità dell`oro e a quel tempo Washington ne deteneva i ¾ di tutta la quantità mondiale, mentre gli altri Stati non ne disponevano abbastanza da poter far circolare la propria moneta. Questa necessità era legata al periodo storico nel quale il valore dell’oro era collassato e quindi il sistema aveva la necessità di non basarsi più su questo valore fisso ma sulla flessibilità di un’altra valuta, il dollaro. 

 L`accordo stabilito fu quello di fissare il dollaro all`oro ad un tasso fisso, mentre tutte le altre valute a sua volta erano fissate al valore del dollaro. Il nuovo procedimento consisteva nel convertire il franco, ad esempio, in dollari e, a sua volta, i dollari in oro. 

La transizione dall’ oro al dollaro aveva portato l`America, unico Stato abilitato ad aumentare la quantità di denaro in circolazione, a diventare una banca universale. L’economia americana crebbe e così anche il commercio internazionale, che raggiunse livelli impensabili con il regime monetario precedente.

Una volta stabilito un nuovo ordine monetario, nel 1970 una nuova ondata di instabilità rese tutto il Sistema più precario. La domanda di dollari americani aumentò rispetto alle altre valute e nonostante il governo americano continuasse a stampare nuovi dollari, il valore dell`oro rimaneva lo stesso. L’economia americana soffriva per inflazione e recessione (cosiddetta stagflation), il dollaro era svalutato e parte del problema era legato al fatto che quest’ultimo era diventato una riserva globale. Questi furono i presupposti che portarono Nixon, nel 1973, a prendere la coraggiosa decisione di disancorare il valore del dollaro a quello dell`oro. Questo segnò la fine di Bretton Woods, e l’inizio di un nuovo sistema decentralizzato, in cui ogni Stato stabiliva il suo rateo di scambio e i valori delle maggiori valute venivano stabilite dal mercato forex a seconda della domanda e offerta (il cosidetto sistema di rateo di scambio “floating” ). In questo nuovo sistema, quindi, il dollaro non aveva più motivo di essere la valuta più utilizzata, ma di fatto ha continuato a detenere questa supremazia.

Sicuramente una prima spiegazione “simbolica”è l’abitudine, dovuta al fatto che fino ad allora nelle transazioni internazionali si era sempre usato il dollaro americano e non c’era quindi nessun motivo di  cambiare. Questo indirettamente ha portato il dollaro ad avere una certa reputazione, che risulta una delle ragioni principali del suo potere. Lo dimostra il caso della Cina che dal 2009 reclama una nuova valuta globale per creare un unica grande riserva che sia disconnessa da una singola nazione e che rimanga stabile nel lungo termine. Attualmente sta cercando di internazionalizzare il renminbi o Yuan cinese e l’ostacolo principale sembra proprio essere la ricerca di una reputazione e di un riconoscimento internazionale che ora non ha. Nonostante ciò, nel primo trimestre del 2019 le banche centrali detenevano circa 213 miliardi di dollari in renmimbi, che sono solo una frazione dei 6.7 trilioni di dollari attualmente detenuti, ma le previsioni stimano una crescita continua nei futuri anni.

Oltre a tutto ciò, il dollaro ha delle caratteristiche che altre valute non hanno:

1) Stabilità di valore: sin dagli anni 80 la FED (Federal Reserve) è riuscita a mantenere livelli di inflazione bassi e stabili.

2) Liquidità: il mercato finanziario statunitense ed in particolare il Treasury market ( il mercato dei titoli di stato Americani) è il più liquido al mondo e una delle ragioni è proprio la persistente preferenza del dollaro americano nel commercio internazionale. 

3) Sicuro: Nonostante l’oltraggioso debito, c’è una grande disponibilità di asset in dollari che sono considerati molto sicuri, un paradiso sicuro (safe heaven).

4) Lender of last resort: la FED può fornire dollari durante i periodi di crisi attraverso la cosiddetta linea di swap con 14 banche centrali. Che vuol dire che fornisce dollari alle banche centrali straniere che a sua volta trasferiscono alle diverse banche nei periodi di crisi.

Detto ciò, quali sono i benefici che l’America ha nel detenere questa potente valuta?

L’ex Ministro delle Finanze francese Valery d’Estaing ha parlato di un «esorbitante privilegio». Cosa voleva suggerire questa sua affermazione?

Scoprilo nel prossimo articolo.

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GREEN WAR – LA GUERRA AI FARMACI AMERICANI

Ottobre 28, 2019 by Alberto Fasolo

In media, 130 cittadini statunitensi muoiono ogni giorno per overdose di oppiacei. Il dato, tuttavia, non è da imputare solamente ai soliti colpevoli come l’eroina. In America, a fomentare questi numeri, ci sono numerosi farmaci antidolorifici impropriamente utilizzati. La tendenza all’uso (e successivamente all’abuso) di farmaci a base di oppioidi naturali è lentamente diventata una delle epidemie più importati che lo stato ha dovuto combattere in anni recenti.

Il fattore scatenante di questo grave problema sanitario è nato durante gli anni ‘90 quando numerose case farmaceutiche proclamavano l’efficacia e la sicurezza di questi farmaci oppioidi. I farmaci oppioidi replicano nel nostro cervello gli stessi effetti di una nota sostanza stupefacente naturale: l’oppio. Legandosi a particolari recettori, questi farmaci sono un potente strumento per controllare praticamente ogni tipologia di dolore

Grazie alla loro grande efficacia nel controllare diversi sintomi di varia natura (dalla tosse a dolori post-operatori) le prescrizioni per questi tipi di farmaco sono aumentate drasticamente dagli anni ‘90. Nonostante quanto fosse stato dichiarato inizialmente, venne presto scoperto come questi farmaci potessero portare a tolleranza e in molti casi dipendenza fisica. Tuttavia, prima di queste scoperte l’utilizzo e l’abuso di questi farmaci era ormai pratica diffusa tra la popolazione.

Dopo svariati anni, l’abuso di sostanze oppiacee sintetiche e non, è citato come una delle emergenze sanitarie americane. È stimato come il 21-29% dei pazienti affetti da dolori cronici utilizzino in maniera errata suddetti farmaci mentre una percentuale compresa tra l’8% e il 12% sviluppa una forma di disturbo che li porta al consumo di oppiacei per motivi diversi dai sintomi per cui erano stati prescritti. Il problema tuttavia non si esaurisce al consumo di farmaci antidolorifici: a causa del loro potere assuefacente si stima che il 4-6% di coloro affetti da un disturbo legato all’oppio decidano di consumare eroina per ottenere appagamento data l’alta tolleranza ormai accumulata. 

Il problema tuttavia non è solamente sociale ma anche economico: alcuni studi (uno dei più recenti è stato nel 2006) hanno calcolato come il costo complessivo di questa piaga di dipendenza sia di circa 54 milioni di dollari. La maggior conseguenza economica riscontrata è dovuta alla perdita di produttività che queste persone riscontrano a causa di una mancanza di dose. Anche una volta somministrata, gli effetti del farmaco fanno si che la produttività sia altamente ridotta. 

Ma il peso economico di questa crisi non è ancora finito. A partire dal 2017, una speciale commissione è stata incaricata dal presidente Donald Trump per investigare, controllare e arginare questo fenomeno che sembra dilagare incontrollato. La commissione ha pubblicato in via preliminare un report sulla attuale situazione pochi mesi dopo l’incarico. Alcuni mesi dopo la pubblicazione del report la catena farmaceutica CVS ha annunciato che avrebbe posto dei limiti alle prescrizioni che i nuovi pazienti affetti da dolori cronici potessero ottenere dal proprio medico. A partire dal 2018 sono stati investiti ulteriori milioni per svariate campagne di sensibilizzazione al corretto uso di questi medicinali e sono stati stanziati fondi per il controllo e supporto di strutture mediche che cercano di arginare il fenomeno.

Ad oggi la situazione sembra in procinto di un cambiamento, ma la crisi è ancora lunge dall’essere conclusa. Molte case farmaceutiche sono impegnate in diverse corti americane per difendersi dall’accusa di aver messo in commercio farmaci non adatti o non correttamente pubblicizzati causando ingenti danni all’economia e ai cittadini americani, rompendo il rapporto di fiducia che normalmente dovrebbe esserci tra l’industria farmaceutica e il pubblico. Nonostante le compagnie stiano attuando svariate strategie per impedire ulteriori abusi di queste sostanze, i dati non sono ancora incoraggianti. Il consumo e le prescrizioni di oppioidi sono invariati se non in leggero aumento e i casi riportati di dipendenza sono sempre maggiori.

Insomma, gli strumenti che il governo americano sta utilizzando sembrano corretti e potrebbero dare dei buoni risultati, tuttavia i passi più concreti sono stati fatti in anni recenti; prima di poter osservare l’impatto di questi dovremo aspettare anni. Nel frattempo, la crisi continua (quasi) imperturbata.

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