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L’intelligenza artificiale: una risorsa o una minaccia? Can The Matrix beReal?

Dicembre 21, 2022 by Umberto De Ambrosi Lascia un commento

ATTNZIONE:⚠️

Questo articolo e le sue grafiche sono state redatte con l’ausilio di tool di Intelligenza Artificiale. All’intero dell’articolo sono presenti, volutamente errori di battitura per identificare il passaggio umano.

Categorie di intelligenza artificiale 🤖

Esistono diverse categorie di intelligenza artificiale, a seconda del modo in cui vengono classificate. Un modo comune per classificare l’intelligenza artificiale è in base al livello di autonomia e al grado di interazione con l’ambiente esterno.

In base a questa classificazione, esistono tre tipi principali di intelligenza artificiale:

 

  1. Intelligenza artificiale debole o limitata: si tratta di sistemi di intelligenza artificiale che sono progettati per svolgere compiti specifici e sono generalmente meno autonomi rispetto agli altri tipi di intelligenza artificiale. Ad esempio, un robot che è programmato per assemblare componenti in una fabbrica potrebbe essere considerato un esempio di intelligenza artificiale debole.

  2. Intelligenza artificiale generalizzata: si tratta di sistemi di intelligenza artificiale che sono in grado di svolgere una varietà di compiti diversi e di adattarsi a situazioni nuove e imprevedibili. Questi sistemi sono più autonomi rispetto agli altri tipi di intelligenza artificiale e possono essere utilizzati in molti contesti diversi. Ad esempio, un assistente virtuale come Siri o Alexa potrebbe essere considerato un esempio di intelligenza artificiale generalizzata.

  3. Intelligenza artificiale superintelligente: si tratta di sistemi di intelligenza artificiale che hanno un livello di autonomia e di capacità di adattamento superiore a quello degli altri tipi di intelligenza artificiale. L’intelligenza artificiale superintelligente è ancora oggetto di speculazione e di dibattito tra gli esperti, ma in teoria potrebbe essere in grado di superare l’intelligenza umana in una o più aree. Tuttavia, non esiste ancora un sistema di intelligenza artificiale che possa essere considerato veramente superintelligente.

Inoltre, l’intelligenza artificiale può essere classificata in altri modi, ad esempio in base al modo in cui viene utilizzata (ad esempio, intelligenza artificiale di supporto, intelligenza artificiale collaborativa, intelligenza artificiale autonoma) o in base al modo in cui viene implementata (ad esempio, intelligenza artificiale basata su regole, intelligenza artificiale basata sui dati, intelligenza artificiale basata sull’apprendimento).

 

 

Chat GPT 💬

Chat GPT è la novità del momnto! GPT, ovvero Generative Pre-trained Transformer, è un modello di linguaggio sviluppato da OpenAI che utilizza la tecnologia delle trasformazioni per generare testi di alta qualità. È stato progettato per essere addestrato su grandi quantità di dati e in grado di eseguire diverse attività di elaborazione del linguaggio, come la traduzione, la scrittura di testi e la risposta a domande.

Per accedere a questo super-tol di intelligenza artificiale il link è il seguente:

LINK 

Il problem solving sarà ancora una skill da inserire nel CV? 😌

L’intelligenza artificiale (AI) può essere utilizzata per risolvere una vasta gamma di problemi e svolgere una varietà di attività. Alcune delle cose che si possono ottenere con l’AI includono:

  1. Automazione di processi ripetitivi e noiosi: l’AI può essere utilizzata per automatizzare compiti ripetitivi e noiosi, liberando il tempo degli esseri umani per concentrarsi su compiti più importanti e stimolanti.

  2. Analisi dei dati: l’AI può essere utilizzata per analizzare grandi quantità di dati in modo rapido e preciso, estraendo informazioni significative e facendo scoprire pattern e tendenze che potrebbero essere difficili da individuare manualmente.

  3. Previsione e decisione supportate dai dati: l’AI può essere utilizzata per fare previsioni su eventi futuri e supportare le decisioni basate sui dati, ad esempio nel settore finanziario o nella pianificazione delle risorse.

  4. Assistenza alla customer experience: l’AI può essere utilizzata per fornire assistenza ai clienti, ad esempio attraverso chatbot che possono rispondere alle domande dei clienti e fornire informazioni sui prodotti o servizi.

  5. Sviluppo di nuove tecnologie: l’AI può essere utilizzata per sviluppare nuove tecnologie e soluzioni innovative in diverse aree, come la medicina, l’energia, i trasporti, l’agricoltura e molti altri settori.

Mondo del lavoro 💼

L’intelligenza artificiale sta avendo un impatto crescente nel mondo del lavoro. Da un lato, l’AI può automatizzare molti processi lavorativi e rendere le attività più efficienti. Dall’altro, c’è il rischio che l’AI possa sostituire alcuni lavori umani, creando preoccupazione per la perdita di posti di lavoro. Tuttavia, l’AI può anche creare nuove opportunità di lavoro, ad esempio nello sviluppo e nella manutenzione di sistemi di AI. Inoltre, l’AI può aiutare a liberare i lavoratori dalle attività ripetitive e a concentrarsi su compiti più creativi e impegnativi. È importante che le società e i governi lavorino insieme per affrontare le sfide e sfruttare le opportunità dell’AI nel mondo del lavoro in modo equo e responsabile.

“Vedo il momento in cui saremo per i robot cosa sono i cani per gli umani e io faccio il tifo per le macchine.”

Claude Shannon, il padre della teoria dell’informazione

Vantaggi dell’intelligenza artificiale per le aziende 🗃️

L’intelligenza artificiale (AI) può offrire una serie di vantaggi per le aziende, alcuni dei quali sono i seguenti:

  1. Maggiore efficienza: l’AI può aiutare le aziende a ottimizzare i processi e ad automatizzare compiti ripetitivi, liberando il tempo degli esseri umani per concentrarsi su compiti più importanti e stimolanti.

  2. Analisi dei dati: l’AI può aiutare le aziende a analizzare grandi quantità di dati in modo rapido e preciso, estraendo informazioni significative e facendo scoprire pattern e tendenze che potrebbero essere difficili da individuare manualmente.

  3. Migliore decisione supportata dai dai: l’AI può aiutare le aziende a fare previsioni su eventi futuri e supportare le decisioni basate sui dati, ad esempio nel settore finanziario o nella pianificazione delle risorse.

Come integrare l’intelligenza artificiale nella propria azienda 👨‍💼

Per integrare l’intelligenza artificiale (AI) nella propria azienda, è necessario seguire alcuni passaggi:

  1. Identificare le opportunità di utilizzo dell’AI: la prima cosa da fare è identificare le opportunità di utilizzo dell’AI all’interno dell’azienda. È importante considerare i compiti che possono essere automatizzati o ottimizzati attraverso l’AI, nonché le aree in cui l’AI può offrire un vantaggio competitivo.

  2. Stabilire una strategia di AI: una volta individuate le opportunità di utilizzo dell’AI, è importante stabilire una strategia per l’utilizzo dell’AI all’interno dell’azienda. Questa strategia dovrebbe includere gli obiettivi dell’azienda per l’AI, i modelli di business che verranno utilizzati e come l’AI sarà integrata nei processi aziendali esistenti.

  3. Avere u team di AI: per implementare l’AI nella propria azienda, sarà necessario formare un team di AI composto da esperti di intelligenza artificiale e da membri del team aziendale che possano utilizzare l’AI per ottenere il massimo vantaggio per l’azienda.

  4. Implementare l’AI e monitorare i risultati: una volta selezionate le tecnologie e gli strumenti di AI e formato il team di AI, sarà necessario implementare l’AI nella propria azienda e monitorare i risultati per valutare l’efficacia dell’AI e apportare eventuali modifiche.

Considerazioni etiche sull’IA in azienda 📛

L’intelligenza artificiale (AI) sta diventando sempre più diffusa nell’ambito aziendale e può offrire numerosi vantaggi, come l’automazione di processi ripetitivi, l’analisi dei dati e l’ottimizzazione dei processi di produzione. Tuttavia, l’utilizzo dell’AI in azienda solleva anche alcune preoccupazioni etiche. Ad esempio, è importante che l’AI sia trasparente nella sua operatività e che le decisioni basate sull’AI siano comprensibili. Inoltre, chi utilizza l’AI in azienda è responsabile degli impatti delle sue decisioni sui dipendenti, i clienti e la società in generale. Altre considerazioni etiche da tenere presente sono la privacy, la sostenibilità, l’equità e l’umanizzazione dell’AI. È importante che le aziende prendano in considerazione queste questioni etiche e adottino misure per garantire che l’AI venga utilizzata in modo responsabile e rispettoso dei diritti umani.

L’intelligenza artificiale nel mondo dell’arte 🖼️ (nell’articolo puoi trovare qualche esempio di arte digitale)

L’intelligenza artificiale (IA) sta diventando sempre più presente nella nostra vita quotidiana e sta anche influenzando il mondo dell’arte in molti modi. Uno dei modi in cui l’IA viene utilizzata nell’arte è la creazione di opere d’arte autonome. Ad esempio, alcuni artisti utilizzano l’IA per addestrarla con migliaia di opere d’arte esistenti, in modo da poter creare nuove opere che incorporino elementi dello stile e della tecnica di artisti famosi. L’IA può anche essere utilizzata per analizzare grandi quantità di dati sull’arte, come il numero di vendite di opere d’arte di un determinato artista o le caratteristiche stilistiche di una determinata corrente artistica. Questo può essere molto utile per gli artisti, i critici e gli studiosi, che possono utilizzare queste informazioni per comprendere meglio le tendenze artistiche e fare previsioni sui futuri sviluppi dell’arte.

Inoltre, l’IA può essere utilizzata per aiutare a conservare e restaurare le opere d’arte, ad esempio analizzando immagini di opere danneggiate per determinare come ripararle o utilizzando algoritmi di riconoscimento delle immagini per identificare opere d’arte rubate o perdute. L’IA può anche essere utilizzata per promuovere l’arte online, ad esempio consigliando opere d’arte in base alle preferenze dell’utente o creando pubblicità personalizzate per gli spettacoli d’arte. Infine, l’IA può essere utilizzata per creare esperienze di arte interattive, ad esempio utilizzando algoritmi di riconoscimento delle immagini o del movimento per far reagire le opere d’arte in modo dinamico alle azioni dell’utente.

Tuttavia, l’utilizzo dell’IA nell’arte solleva anche alcune questioni etiche e sfide che dovranno essere affrontate. Ad esempio, c’è il rischio che l’IA possa sostituire gli artisti umani o che possa essere utilizzata per creare opere d’arte che non sono eticamente accettabili.

Nel seguente articolo troverai modi per sfruttare l’intelligenza artificiale per creare arte anche tu:

LINK

 


Conclsioni

In conclusione, l’intelligenza artificiale (AI) sta diventando sempre più diffusa in diverse aree aziendali e sta dimostrando di essere in grado di offrire numerosi vantaggi, come l’automazione di processi ripetitivi, l’analisi dei dati e l’ottimizzazione dei processi di produzione. Tuttavia, l’utilizzo dell’AI in azienda solleva anche alcune preoccupazioni etiche, che vanno affrontate in modo responsabile e rispettoso dei diritti umani.

Secondo uno studio del World Economic Forum, entro il 2025 circa il 50% delle attività lavorative saranno automatizzate o ottimizzate attraverso l’AI, aprendo anche nuove opportunità di lavoro nel settore dell’AI. Inoltre, secondo un’indagine di McKinsey, le aziende che hanno già adottato l’AI hanno registrato un aumento del 20% della produttività e un aumento del 40% dei margini di profitto.

Inoltre, secondo un’indagine di PwC, il 70% delle aziende prevede di investire in AI entro il 2022, con un aumento dell’investimento medio del 38% rispetto al 2021. Questo dimostra come l’AI stia diventando sempre più importante per le aziende di tutto il mondo.

 

In definitiva, l’AI può offrire numerosi vantaggi per le aziende, ma è importante che venga utilizzata in modo responsabile e rispettoso dei diritti umani, tenendo presenti le considerazioni etiche che essa solleva

Archiviato in:Blog Contrassegnato con: analisi dei dati, assistente virtuale, automazione di processi, categorie di intelligenza artificiale, chat GPT, COVID-19, Disoccupazione, etica, Finanza, intelligenza artificiale, intelligenza artificiale debole, intelligenza artificiale generalizzata, intelligenza artificiale superintelligente, Invenicement, Matrix, problem solving, riconoscimento delle parole e delle immagini, rischi e sfide dell'intelligenza artificiale, sicurezza dei dati, simulazione, Siri, supporto decisionale, tecnologia delle trasformazioni

Una guida al master all’estero in una business school: dall’idea al GMAT

Maggio 12, 2022 by Piergiorgio Belfi Lascia un commento

Quello di concludere il proprio percorso di studi in un altro paese è un progetto che sempre più studenti italiani (compreso me) decidono di intraprendere. Che sia solo per vivere un’esperienza all’estero, per frequentare un ateneo prestigioso, o per trovare un approdo comodo per emigrare in un dato paese e iniziarvi la propria carriera, il processo è sempre lo stesso.

Nell’ultimo anno è stato uno dei progetti cui ho rivolto più attenzioni, e per questo ho deciso di buttare giù questa sorta di “guida” per chi sta carezzando l’idea di candidarsi ad atenei e business schools oltre confine, mettendoci tutto quello che avrei voluto sapere io quando iniziai ad informarmi.

Nell’articolo partirò da delle informazioni di base, per poi concentrarmi estensivamente sui passi più difficili da fare per ricevere l’agognata lettera di ammissione: l’IELTS e il GMAT. Descriverò ampiamente i test e darò molti suggerimenti sul come prepararli e affrontarli. Leggendo questo articolo si avrà una panoramica esaustiva su tutti i passi da fare per portare a termine il progetto.

Precisazione necessaria è che io ho concentrato la mia attenzione sulla prospettiva di entrare in università europee, quindi potrebbero esserci differenze sostanziali e sostanziose con le università americane o asiatiche. Ulteriore precisazione è che, come suggerisce il titolo, io parlo di percorsi di economia, finanza e business, e che quindi il discorso è generalmente diverso da quello di altre discipline.

Detto questo, iniziamo dalle basi: un paio di cose che possono confondere già nello scorrimento delle home pages dei siti dei vari atenei:

La nomenclatura dei titoli in inglese

In primis ci terrei a fare luce su una cosa che confonde molti (e aveva confuso anche me ai tempi), ovvero sul cosa si intenda per “master”. Il dubbio sorge dalla differenza che abbiamo nel sistema italiano tra “laurea magistrale” e “master universitario” (di primo e di secondo livello). Quando si parla di master all’estero, però non ci si riferisce al master universitario come inteso da noi, ma ad un master’s degree, che è l’equivalente della nostra laurea magistrale. Per semplicità in questo articolo userò il termine master, ma sia chiaro che mi riferisco al master’s degree.

Conviene fare un po’ di luce sulle equivalenze tra i titoli nostrani e il loro corrispettivo:

  • Lauree triennali -> Bachelor Degrees, oppure “undergraduate degrees”. Sottolineo che non in tutti i sistemi i bachelor durano 3 anni, talvolta ne durano 4.
  • Lauree magistrali -> Master’s degree, oppure “graduate degrees”. Anche qua non è detto che durino sempre 2 anni, in certi sistemi (per esempio quello Olandese) sono più comuni i programmi da 1 anno
  • Dottorati di ricerca -> PhD (doctorate of philosophy)

I master’s degrees vengono solitamente divisi in tre diverse categorie

  • Master’s of Arts (MAs)
  • Master’s of Science (MSc)
  • Master’s in Business Administration (MBAs)

Specifico questo perché gli MBA sono titoli particolari, sono programmi rivolti a figure che già lavorano da qualche anno (richiedono generalmente dai 3 ai 5 anni di esperienza lavorativa rilevante), e sono solitamente molto costosi, perché rivolti a figure in percorsi già avviati (Consulenti, Managers, CEOs…), lo studente di economia e business medio generalmente mira a fare un MSc, per poi magari perseguire un MBA più avanti nella propria carriera, talvolta con uno sponsor (per esempio, la società di consulenza McKinsey notoriamente si offre di finanziare parte dell’MBA per certi dipendenti).

Un’altra precisazione è che in certi casi anche per un MSc può essere consigliata esperienza lavorativa. Non sarà richiesta esplicitamente, ma, specie per i programmi più selettivi, potrebbe fare la differenza. Nella mia aneddotica c’è stato un caso in cui, chiacchierando con alcuni studenti di un master di mio interesse, ho scoperto che gran parte della classe aveva già fatto un annetto di esperienza in una delle “Big 4” (era un programma di accounting), e dei peers conosciuti online candidati allo stesso programma, sono stati ammessi solamente coloro che avevano esperienze simili.

Questa nomenclatura è presente in virtualmente tutti i sistemi europei, poi i singoli atenei applicano i loro nomi ai propri programmi (per esempio ci si trova davanti cose come “MScBA”, “MAcc”, “MFin”) ma se la materia è aziendale, economica o finanziaria (e non è un MBA), si parla sempre di MSc.

La differenza tra business school e università

Un’altra differenza che inizialmente mi aveva perplesso è proprio la dicitura “business school”, e quale sia la differenza con le università tradizionali. Dopo un anno, la mia conclusione è che la differenza sia abbastanza arbitraria, ma ci sono degli aspetti che ritornano la maggior parte del tempo:

  • Le business schools hanno un approccio più pratico e orientato al lavoro rispetto università
  • Le business schools tendono ad essere private, o comunque in stretta collaborazione con imprese e privati
  • Le business schools si focalizzano su temi di economia, finanza e business.

Detto questo, i casi sono estremamente variegati. Alcune business schools non hanno nemmeno la dicitura “business school” nel nome, come per esempio la Stockholm school of economics. Alcune business schools non sono private, come la Rotterdam School Of Management (RSM). Altre business schools sono semplicemente il dipartimento di management ed economia di un’università, come la Amsterdam Business School, che è uno dei dipartimenti dell’university of Amsterdam (UvA). Quindi consiglio di controllare il singolo caso piuttosto che cercare una regola generica

Una volta capite queste due cose si può iniziare a visitare i siti delle università e business schools alle quali si è interessati, e iniziare a costruirsi un proprio portafoglio di scelte.

Come scegliere le proprie business schools target?

C’è poco da fare, è completamente soggettivo. Ma certamente ci sono degli elementi che andrebbero tenuti più o meno in considerazione, ne elenco un paio come spunto di riflessione:

  • Il programma: direi che è la cosa più importante, a prescindere da tutto il resto che verrà detto dopo. Si può anche venire ammessi ad un’università tra le prime venti al mondo, ma se ci si trova a studiare qualcosa che interessa poco o niente, aprendosi le porte ad un settore lavorativo cui non si ambisce, tanto valeva scendere un po’ in giù in classifica.
  • Università elitaria o di massa?: Accetto critiche in questo, ma penso sia importante anche tenere a mente la caratura delle proprie università target. Questo per valutare anche le probabilità di essere ammessi. Avere un portafoglio scelte di sole top con acceptance rates inferiori al 20% è una scelta azzardata, perchè l’unica situazione assolutamente da evitare è quella in cui ci si trova senza una sola lettera di ammissione. Il mio consiglio è quello di avere un portafoglio misto, dove ci siano sia università elitarie che “di massa”, dove le seconde sono quelle meno selettive, che facciano magari da piano B, o C, o D. Il mio portafoglio, ad esempio, si componeva di un’università che poco probabilmente mi avrebbe ammesso (e infatti non è stato così), tre che con probabilità media mi avrebbero ammesso, e altre due che mi avrebbero ammesso al 99%.
  • Il paese: Se l’obiettivo è stabilirsi nel luogo degli studi, vien da se. Ma anche se fosse solo una possibilità, con comunque l’apertura a tornare in Italia con una laurea all’estero, non lo trascurerei. Si valuti sopratutto la possibilità reale di trovare lavoro nella nazione dove si va a studiare, in base a quanto sono richieste le conoscenze che si acquisiranno completando il programma, sulla possibilità di lavorare conoscendo solo l’inglese e non la lingua locale (potrebbe essere, ad esempio, più viabile in Olanda che in Austria o in Francia).
  • Le opportunità oltre al conseguire il titolo: Nello sfogliare il curriculum del master scelto, si faccia attenzione anche a moduli particolari, possibilità di tirocini sponsorizzati, career fairs, e altro. Le business schools con un approccio più pratico tendono ad offrire molte cose di questo genere, che possono aiutare molto poi nel trovare posizioni lavorative di rilievo. Anche la possibilità di frequentare associazioni studentesche può essere interessante: alcune bss sono piene di business clubs, finance clubs, associazioni sportive, gruppi che forniscono challenges e workshops a tema, e tanto altro. Frequentare queste organizzazioni può aiutare molto col networking, e al crearsi una cerchia sociale per vivere meglio in un paese straniero.

Poi, se proprio non si sa da dove partire nel vedere quali università possano essere interessanti, consiglierei di partire dai rankings più famosi, per iniziare a farsi un’idea. Sto parlando di classifiche globali delle migliori business schools: “Financial Times Higher Education”, “QS rankings” e “Shangai ranking”. Verso la fine dell’articolo farò un’appuntino su come prendere queste classifiche, ma è innegabile che siano molto utili per dare un’occhiata e iniziare a farsi un’idea.

E un’ultima cosa nel valutare le possibili business schools: si può parlare con gli studenti che al momento si trovano li! Una moltitudine di università fornisce il servizio UniBuddy, con il quale si può scegliere uno studente e chattarci, per porgli domande di qualsiasi tipo. Io l’ho trovato molto utile, anche solo per farsi un’idea del tipo di persone con cui ci si potrebbe confrontare. Sicuramente consigliato.

Quando iniziare a pensarci? E quanto tempo servirà?

Una cosa su cui non posso non spendere due parole sono le tempistiche per portare avanti il progetto. Il mio consiglio è ragionare sul cosa si voglia fare dopo la triennale molto prima di avvicinarsi alla conclusione di essa, questo in generale, a prescindere che si voglia studiare all’estero o meno.

Ad ogni modo, se si sta valutando di andare all’estero, i tempi si allungano. Io consiglio caldamente di iniziare a pensarci intorno all’inizio del secondo anno, e iniziare a fare delle ricerche sul paese in cui si voglia andare, sull’ateneo, sul programma, e soprattutto sui perché delle prime tre cose, sui benefici che quel particolare programma porterà alla propria carriera.

C’è un’altra ragione, ovviamente, oltre alle sopra citate riflessioni e ricerche da fare, ed è la raccolta dei documenti e dei test necessari all’inviare le applications per tempo, entro le deadlines.

E su queste deadlines vorrei spendere due parole, perchè possono essere molto più vicine di quanto si possa pensare. Questo dipende principalmente dal paese scelto, ed in certi casi dall’ateneo in particolare: in Svezia, per esempio, la norma è avere le deadlines a gennaio per i programmi che iniziano a settembre, con certe università che propongono anche una early-bird deadline a Dicembre. In quel caso, quindi, l’università inizia a ricevere le prime candidature un intero anno prima dell’inizio del master. C’è da dire che quello della Svezia è un caso particolare, e forse ci sono eccezioni anche li. In Danimarca, invece, è normale vedere deadlines a marzo, mentre in Olanda generalmente ci si può candidare anche fino ad aprile-maggio, come in Italia, ma per qualcuno che non sa ancora dove vorrebbe studiare, è importante tenere questo aspetto di conto.

Anche perché come ho detto, la deadline non è solo il momento in cui si deve essere già ben certi di volersi candidare, ma anche quello dove si è effettivamente in grado di farlo, avendo già in mano la documentazione e i risultati di uno o più test di cui parlerò tra poco, e la raccolta di questi elementi può richiedere anche molto tempo.

Ripeto quindi che è meglio iniziare a schiarirsi le idee intorno all’inizio del secondo anno di triennale, per non vedersi preclusa alcuna possibilità per il solo motivo di essersi presi troppo tardi. Anche perchè, se si è come me, il solo periodo di incertezza su cosa si voglia fare prenderà molto tempo.

Cosa serve per candidarsi?

Qui si apre un mondo di possibilità. I processi di candidatura hanno la brutta abitudine di essere tremendamente diversi l’uno dall’altro. Una certa università può chiedere tante cose, mentre un’altra (anche nello stesso paese), chiederne anche solo la metà. Vien da se che anche qui bisogna guardare il caso specifico (per evitare magari di preparare e dare il GMAT quando non è nemmeno richiesto).

Ad ogni modo, stilerò ora una lista dei documenti che ho visto richiesti finora in tanti processi di application diversi (NB: i paesi dove mi sono candidato io sono Svezia, Danimarca e Paesi Bassi), poi vedremo tutti gli elementi nel dettaglio, (chiaramente questo sarà il grosso dell’articolo).

I documenti che possono essere richiesti sono:

  • Una prova delle proprie competenze di Inglese
  • Il risultato di un test standardizzato (GMAT o GRE)
  • Un trascritto ufficiale del proprio percorso in triennale (o il diploma di laurea)
  • Un Curriculum Vitae
  • Una lettera motivazionale
  • Delle lettere di raccomandazione

Questi documenti (o alcuni di essi) compongono il corpo principale della candidatura. Poi magari ci saranno altri elementi minori, come delle domande mirate sulle proprie prospettive di carriera nel paese, domande sui propri hobby, i documenti di identità, una domanda di self reflection, il diploma del liceo, eccetera. Ma quelli che ho elencato qui sono quegli elementi su cui ho qualcosa (o molte cose) da dire. Tratterò per primi i documenti velocemente, per poi scrivere ampiamente dei due elementi davvero importanti: il test di inglese e il GMAT/GRE.

Il trascritto ufficiale del proprio percorso triennale

Per candidarsi ad una business school non serve essere già laureati, ma se non lo si è verrà chiesto di fornire delle prove ufficiali del percorso svolto finora. Questo per motivi molteplici:

In primis per accertare che si abbiano crediti sufficienti nelle materie di cui sono richieste conoscenze (esempio facile, se ci si candida ad un MSc in Finance, con tutta probabilità verrà richiesta almeno una dozzina di crediti in finanza, una decina in statistica e matematica, e via dicendo).

In secondo luogo, (e non in tutti i casi), per valutare le prestazioni accademiche e per verificare che la media (GPA, Grade Point Average) sia abbastanza alta per l’ammissione, magari per il posizionamento in una graduatoria. Questo è per esempio il caso della Rotterdam School of Management, che pone come conditio sine qua non per l’ammissione quello di avere una GPA superiore alla media del proprio paese, dando anche dei benchmark per ogni paese del mondo. Non mi stresserei troppo sul metodo di calcolo della GPA (online si trovano consigli sul come calcolarla in duecento modi diversi, dalla scala da 0 a 4 alla scala A-F), se questa è richiesta verrà fornito un metodo di calcolo, e in certi casi anche un foglio excel pre compilato per tradurre la media del proprio paese nella GPA del sistema locale.

Ad ogni modo, il trascritto deve essere ufficiale, deve quindi essere in lingua inglese (e non tradotto da sé), e deve portare i timbri dell’università dove si sta conseguendo la triennale. Questo documento può essere generalmente richiesto dalla propria area riservata sul sito dell’università, e richiederà il pagamento di una marca da bollo.

Dalla mia esperienza posso dire che la maggior parte delle università e bss richiedono che sul trascritto compaiano gli esami superati, con voto e peso in crediti, ma anche gli esami in programma, che spesso richiedono un trascritto altro. Nel mio caso, infatti, ho dovuto richiedere due trascritti: uno degli esami superati (grade transcript) e uno degli esami nel piano di studio (study plan transcript).

Il CV

Come detto prima, i MSc non richiedono esperienza lavorativa, ma in molti casi averne aiuta molto nella selezione. In un CV per una candidatura universitaria consiglio di inserire un po’ di tutto, anche se sembra “poco rilevante”, che siano esperienze lavorative passate, tirocini, volontariato, corsi online di programmazione o utilizzo di software, o partecipazioni attive in associazioni studentesche. Se una business school richiede un CV nel suo processo di candidatura, probabilmente è perché ha misure di valutazione dei candidati abbastanza olistiche, che quindi valutano anche l’intraprendenza del candidato, anche se le attività svolte sono poco rilevanti per il programma a cui si sta candidando.

La lettera motivazionale (o cover letter)

In una lettera motivazionale viene generalmente chiesto al candidato perché egli voglia studiare proprio quel programma e proprio in quell’ateneo. Ecco, non posso dare molti suggerimenti su questo elemento perché non c’è alcuna scienza esatta, ma personalmente penso che ci siano delle linee guida non scritte da tenere a mente:

  • Non essere scontati, per evitare di consegnare la duecentesima application in cui si nomina il “prestigio dell’università”
  • Mostrare di sapere cosa si sta facendo: conoscere il programma, nel senso i corsi, gli electives, le attività extracurriculari, eccetera, e saper motivare perché questi elementi abbiano portato a scegliere proprio quel programma (sempre evitando banalità)
  • Dimostrare di avere un piano di carriera per cui quel programma potrebbe essere utile (ad esempio, “voglio iniziare la mia carriera nell’FP&A, per questo voglio studiare in questo master che si concentra sia sulla contabilità che sulla finanza”
  • Dire qualcosa di sé (e motivarlo): non si parla di lodarsi e imbrodarsi, ma di descriversi, ad esempio descrivendo alcune delle proprie esperienze recenti che hanno portato alla decisione di specializzarsi in quel dato ambito, noi di Invenicement, ad esempio, potremmo dire che il nostro partecipare in una club di finanza ci ha fatto appassionare al campo, anche per via di seminari e workshops.

Certo queste cose son da prendere con le pinze, io non ho grande stima delle lettera motivazionali quindi magari sono prevenuto, ma penso sia ragionevole pensare che il personale dell’admissions office di qualsiasi università sappia riconoscere le cover letters scritte a tavolino nel modo più impostato possibile per fare una bella impressione, quindi a mio pare il focus deve essere quello di essere coerenti, credibili, sinceri e un po’ originali, tanto con tutta probabilità la cover letter non sarà l’elemento che farà guadagnare il posto, semmai potrebbe farlo perdere.

Le lettere di raccomandazione

Queste tendono a saltare fuori nei programmi più ambiti ed elitari, dove quindi si tende a fare molta selezione e si vuole che qualcuno certifichi le qualità del candidato. Personalmente mi sono state richieste una volta sola (dalla Stockholm School of Economics) ed erano comunque facoltative, seppur venisse specificato che statisticamente venissero approvate più candidature munite di raccomandazioni rispetto al contrario.

Dei possibili “raccomandanti” potrebbero essere professori universitari (magari il proprio relatore), o il tutor aziendale del proprio tirocinio, se rilevante (magari si è fatto il tirocinio in una banca o assicurazione conosciuta anche all’estero).

esauriti i “documentini”, è il momento di parlare dei due test che ho già citato diverse volte.

La prova delle competenze di inglese

Il tipo di attestazione di lingua inglese ammessa varia da università a università ma è da star sicuri che verrà chiesta. Alcune università ammettono l’aver frequentato una triennale in lingua inglese come prova sufficiente, ma la maggior parte chiede il risultato di un test standardizzato. Di questi test, quelli che ho visto chiedere sono

-IELTS (Academic)

-TOEFL IBT

-Cambridge Assessment English

Come linea generale, ho notato che l’IELTS Academic è quello che viene ammesso più spesso (praticamente sempre), il TOEFL quasi sempre, il Cambridge Assessment invece, non è ammesso da tutte le università, spesso non è proprio nominato. Consiglio caldamente di fare l’IELTS, perché devo ancora trovare un’università in Europa che non lo ammetta. Ad ogni modo, di questi test verrà richiesto un punteggio minimo, che generalmente si aggira intorno al B2-C1 secondo il framework europeo. Certo vien da se che non dovrebbe essere un problema raggiungere quel livello, nella prospettiva di andare a studiare, vivere, dare esami e scrivere una tesi in lingua.

Un possibile elemento per scegliere tra TOEFL e IELTS potrebbe essere quello dell’attenzione alla grammatica, che è maggiore nell’IELTS, mentre nel TOEFL è più apprezzata la fluidità nel parlare. Inoltre, il TOEFL è più incentrato sulla pronuncia americana dell’inglese (cosa che ha rilievo nelle sezioni di speaking e listening), mentre l’IELTS si basa più sulla pronuncia britannica.

Non sono familiare con la struttura di cambridge e TOEFL, ma conosco molto bene l’IELTS, trovo utile quindi descriverlo nel dettaglio, dando anche i miei consigli per prepararlo ed affrontarlo al meglio.

L’IELTS

L’IELTS (International English Language Testing System) è un esame dalla durata di circa 3 ore, che si divide in quattro sezioni: Speaking, Writing, Reading e Listening. Per ogni sezione viene assegnato un punteggio da 1 a 9, di cui viene fatta la media per assegnare un punteggio di overall. Per capire più o meno a quanto equivalga il punteggio dell’IELTS si può guardare la tabella di conversione IELTS-CEFR (Common European Framework of Reference for languages):

L’IELTS (International English Language Testing System) è un esame dalla durata di circa 3 ore, che si divide in quattro sezioni: Speaking, Writing, Reading e Listening. Per ogni sezione viene assegnato un punteggio da 1 a 9, di cui viene fatta la media per assegnare un punteggio di overall. Per capire più o meno a quanto equivalga il punteggio dell’IELTS si può guardare la tabella di conversione IELTS-CEFR (Common European Framework of Reference for languages)

Le università tendono a chiedere un overall minimo e anche un punteggio minimo per ogni sezione. Ad esempio, spesso viene chiesto un overall minimo di 7.0, con almeno 6.5 in ogni sezione. Questo per evitare di avere studenti che magari capiscono tutto ciò che gli viene detto ma che non sanno proferire parola in inglese. Il massimo che ho visto chiedere è stato 7.5 di overall con almeno 7 per sezione.

Requisiti di inglese della Stockholm School of Economics
Requisiti di inglese della University of Amsterdam

Fare il test costa circa 240 euro, e il risultato è valido per 2 anni (da tenere a mente, per evitare di candidarsi con un test scaduto). Il mio consiglio per prepararsi adeguatamente al test è quello di conoscere bene la struttura del test. Dico questo perché anche chi sa bene l’inglese rischia di prendere un punteggio sottotono, siccome il test è molto intenso. Penso sia utile ora descrivere le quattro sezioni e dare qualche consiglio su come prepararle.

Speaking

è un colloquio di circa quindici minuti con un esaminatore madrelingua con cui si avrà una conversazione simulata divisa in tre sezioni. La prima è una breve presentazione, in cui vengono chieste un paio di domande semplici, ad esempio “da dove vieni, com’è la tua città natale?”. La seconda è a mio avviso la più temibile, ed è un “monologo” che si deve fare su un argomento dato: l’esaminatore mostra all’esaminato una carta con scritto il tema e una serie di punti che dovranno essere toccati durante il monologo, dopodiché dà all’esaminato un minuto (cronometrato) per prepararsi e prendere qualche appuntino su quello che dirà; scaduto il minuto l’esaminato deve parlare per due minuti di fila, e toccare tutti i punti. I temi della sezione due sono imprevedibili, possono variare dal “raccontami di un oggetto a cui tieni molto”, al “dimmi di una volta in cui ti sei sentito offeso”. La terza sezione è un “dibattito” su un tema astratto, dove esaminato ed esaminatore dibattono di un tema che ha a che fare con quello della sezione due. Per esempio, se nella sezione due il monologo è stato su “un momento in cui ci si è sentiti realizzati”, la prima domanda della sezione tre potrebbe essere “cosa ne pensi del vantarsi sui social media?”.

La sezione speaking è quella che spesso spaventa di più, il mio consiglio per prepararsi è simulare la prova con qualcuno, e guardare tanti video di gente che fa lo stesso (youtube ne è pieno), l’importante è familiarizzare con la struttura e far pratica con i tempi, che sono molto rigidi.

Listening

Non è molto diverso dagli esercizi di listening che si facevano durante le lezioni di inglese delle medie: viene riprodotta una traccia e ascoltando bisogna completare frasi e scegliere alternative su un form. La parte difficile è che la traccia viene riprodotta una sola volta e non può essere fermata a piacimento, questo significa che bisogna rispondere mentre si ascolta. Per preparare questa sezione consiglio di sfruttare il materiale sul sito del british council (l’organizzazione del test) e altri mock test trovabili facilmente in rete.

Reading

anche qui non c’è molta differenza dalle verifiche di inglese fatte nei primi cicli scolastici, fatto salvo la complessità del linguaggio usato (qui si parla dell’IELTS academic, quindi i testi sono di stampo accademico e presentano spesso e volentieri termini tecnici di cui il lettore medio non sa il significato). Si leggeranno una serie di testi, cui seguono esercizi di vario stampo, dall’identificazione di certi paragrafi, a domande a risposta multipla, a domande aperte. Come già detto la difficoltà della sezione sta nel linguaggio usato e nei temi poco familiari ai più, e aggiungo anche che alcune domande sono volutamente ambigue. Tutto sommato però, non ho trovato questa sezione troppo difficile, ma merita comunque un po’ di tempo per essere preparata, anche qui sfruttando i mock ufficiali sul sito.

Writing

Di gran lunga la sezione più difficile e la più difficile da preparare. Si compone di due task, entrambe consistono nella stesura di un testo e pesano entrambe per metà del punteggio.

La prima task è la più breve, e consiste generalmente nella descrizione di un’immagine, che potrà essere un grafico (a torta, a barre, a linea), un diagramma di processo (ad esempio il processo di produzione del calcestruzzo), o una mappa (per esempio la mappa di un’isola prima e dopo la costruzione di un resort turistico). A questa task si consiglia di dedicare 20 minuti dell’ora prevista per la sezione, per scrivere un passage da almeno 150 parole.

La seconda task è più astratta, viene chiesto all’esaminato di descrivere la propria posizione riguardo ad uno statement, o di contestare la posizione di qualcun altro, o di fare un confronto tra due posizioni. A questa task va dedicato il resto dell’ora, per scrivere almeno 250 parole. A mio avviso il fattore fortuna in questa task è davvero fondamentale, in quanto c’è una gran differenza di difficoltà tra i possibili compiti.

Come detto sopra, la sezione writing è molto difficile a mio parere, per prepararla consiglio di farsi dei mock cronometrati (scrivere 400 parole in due testi in un’ora non è banale), e potenzialmente far correggere i risultati da qualcun altro, seguendo le linee guida di grading che si trovano sul sito del british council. Per questa sezione, e per il reading, potrebbe inoltre essere utile l’utilizzo di un libro come “focus on academic skills for IELTS”, o simili.

Tutto sommato, per qualcuno che sa bene l’inglese (quantomeno abbastanza da essere sicuro di andare a fare un master in inglese), l’IELTS Academic non sarà un grosso scoglio da superare. Anche perché, come dirò in seguito, essere in grado di avere una buona performance nel GMAT ha come requisito scontato il sapere molto bene l’inglese. Ma a mio avviso è meglio non prenderlo sottogamba, in quanto le business schools sono molto intransigenti: ci si può presentare anche con un punteggio overall di 8, ma se lo score di una delle sezioni è 6, alcune potrebbero comunque rifiutare la candidatura. Ad esempio io, pur avendo un overall di 8 su 9, ho avuto uno score di 7 nel writing, arrivando pericolosamente vicino ad essere rifiutato da alcune delle mie università target.

Il Test standardizzato (GMAT/GRE)

A differenza della prova di competenza di lingua, questo punto non si applica sempre. Molte università e business schools non richiedono questo genere di test per candidarsi, ma preferisco essere chiaro: quelle più appetibili, salvo rare eccezioni, lo richiedono. È impossibile dare una regola generale per dire quali business schools richiedano un punteggio GMAT o GRE, ma davvero, se si ha l’ambizione di andare in una top 100, è meglio mettersi nell’ordine di idee di farlo. Io, ad esempio, mi sono candidato in 6 università, di tutti i “tiers”, e solamente una non mi ha richiesto esplicitamente il GMAT.

La decisione di fare o meno un test standardizzato va fatta quindi mentre si scrive la lista delle proprie università target, guardando nella sezione “application and admission” dei master che si stanno tenendo in considerazione. Dopo questa prima introduzione, entro nel vivo del cosa siano questi test.

Il GMAT (Graduate Management Admission Test) e il GRE (Graduate Record Examination) sono due test che mirano a valutare le capacità accademiche di uno studente. Sono entrambi standardizzati, il che vuol dire che sono sempre presentati e valutati nella stessa maniera. È importante dire che nessuno dei due ha come requisito conoscenze specifiche di una materia (non ci sono domande di economia, per esempio), quello che si propongono di valutare sono le competenze analitiche, quantitative e critiche del soggetto. Gli unici requisiti impliciti sono la conoscenza (io direi eccellente) della lingua inglese e della matematica (non matematica avanzata, si parla del livello da superiori che in teoria tutti hanno).

Molti si trovano in difficoltà sul quale test scegliere tra i due, ma anche qua darei i miei 2 cents: per chi vuole studiare materie economiche, finanziare o di business in Europa consiglio largamente di fare il GMAT. Nella mia aneddotica il GRE spesso è dato come alternativa (spesso però il punteggio viene convertito in un punteggio GMAT, nel momento della stilatura delle graduatorie), ma ho notato che altrettanto spesso non è neanche ammesso, o è sconsigliato. Questo potrebbe non applicarsi quando si guarda a business schools in altre regioni del mondo, o per programmi particolari, come quelli particolarmente quantitative-oriented (come, ad esempio, i master in Quantitative Finance.). In qualunque caso non tratterò il GRE, in quanto non lo conosco e non avrei nulla di utile da dire, e neanche sulle differenze tra i due test. Tratterò invece estensivamente il GMAT.

Il GMAT

Non potrò mai ripeterlo abbastanza: la preparazione del GMAT richiede tempo. Inizio col dire questo perché il GMAT è sicuramente lo scoglio più difficile da superare per chi vuole portare avanti il piano di studiare in una business school più o meno prestigiosa. Quindi fin da subito è da mettere in chiaro che si parla di mesi di preparazione, anche per i più preparati in matematica/inglese. Certo quando si parla di questo test, la soggettività è davvero rilevante, ora vediamo perché.

Il GMAT è, come detto prima in via generale, un test che punta a valutare le capacità accademiche, questo vuol dire che non vi si troveranno domande di management, finanza, diritto, economia o simili; ma neanche domande di matematica o di inglese fini a se stesse, la lingua e la matematica sono usate come strumenti per valutare le capacità logiche, critiche e di analisi dello studente.

Il test è fatto al computer, ed è un test adattivo, il che vuol dire che è gestito da un algoritmo che decide quale sarà la prossima domanda. Non è chiaro a nessuno il criterio preciso in base al quale l’algoritmo decida quale domande dare, ma in linea generale, più si sta andando bene, più difficili saranno le domande. Ma voglio precisare subito che questo non vuol dire che se arriva una domanda facile allora vuol dire che si sta andando male, innanzitutto la classificazione della difficoltà delle domande è soggettiva (per esempio, io sbagliavo spesso domande “facili” di geometria, mentre rispondevo quasi sempre correttamente alle domande “difficili” di statistica), e in secondo luogo perché magari il software ha deciso di testare un altro aspetto rispetto a quello delle domande precedenti, e quindi varia un po’ la difficoltà, quindi il modo migliore di affrontare l’algoritmo è semplicemente ignorarlo.

Lo metto in chiaro perché molti studenti provano a trovare delle strategie per comprendere l’algoritmo e sfruttarlo per prendere punteggi più alti (per esempio sbagliare volutamente qualche domanda all’inizio per averne di più facili nel resto del test), è uno spreco di tempo e abbatterà totalmente il punteggio finale: the algorithm is smarter than you are.

L’adattività del test segna anche un altro aspetto importantissimo del test: esso va finito. Non si possono (o meglio, non si devono) lasciare domande in bianco (si può procedere solo una domanda alla volta e non si può tornare indietro), ma è fondamentale non lasciare alcuna domanda alla fine della sezione quando scade il tempo. Piuttosto di lasciare domande in bianco è meglio sparare a caso le ultime 3,4 domande e chiudere la sezione, se si sono tarati male i tempi. Impatterà molto meno sul punteggio finale.

Il test si compone di 4 sezioni:

  • Quantitative reasoning
  • Verbal Reasoning
  • Integrated Reasoning (IR)
  • Analytical Writing Assignment (AWA)

Poi le descriverò approfonditamente come ho fatto per l’IELTS, ma prima vorrei spiegare come queste concorrono alla formazione del punteggio, e il valore stesso del punteggio.

Uno score report del GMAT si compone di tre elementi:

  • Total Score: il dato più importante, va da 200 a 800 e deriva dalla performance nelle sezioni quantitative e verbal
  • Lo score della sezione integrated reasoning: da 1 a 8
  • Lo score della sezione AWA: da 0 a 6

Il secondo e il terzo componente sono di importanza minore, l’AWA in alcuni casi non è nemmeno chiesto (attenzione però che di tanto in tanto viene chiesto uno score per questa sezione, anche se generalmente è il minimo indispensabile). In ogni caso, la sezione IR e l’AWA sono anche le due sezioni più “facili”, per le quali serve poca o nessuna preparazione se non un po’ di pratica.

Quello che importa è il total score da 200 a 800. Come detto, esso deriva dalle sezioni quantitative reasoning e verbal reasoning (da qui in poi “quant” e “verbal”): la performance di queste due sezioni determina due “scaled scores” da 6 a 51, e questi due scaled scores vengono incrociati in una matrice (Sotto) per determinare il valore finale da 0 a 800, a intervalli di 10.

Nessuno sa veramente come si calcolino i due scaled scores, fare 20 domande giuste in una sezione non vuol dire automaticamente avere uno scaled score più alto di qualcuno che ne ha fatte giuste 18, questo perché viene tenuta di conto la difficoltà delle domande, ma ancora una volta, nessuno sa come funzioni l’algoritmo, quindi tanto vale ignorare la cosa.

La vera questione è “quale punteggio mi serve?” e la risposta varia tantissimo, a seconda di quanto sia selettivo il programma al quale ci si sta candidando e soprattutto l’ateneo. Bisogna assolutamente controllare la sezione “application and admission” dei propri programmi target.

Le università che richiedono il GMAT tendono a dare un punteggio minimo per candidarsi (che di nuovo, varia molto a seconda del prestigio dell’università, il minimo può essere 500, quanto 560, quanto 600 o più), per poi spesso dare delle statistiche di ammissione, come il punteggio medio delle persone ammesse, o nei casi più precisi anche mediana e range. Altre università e business schools hanno sistemi ancora diversi, per esempio dare una soglia minima oltre la quale (sono soddisfatti gli altri requisiti) si è automaticamente ammessi, come per diversi master all’università di Maastricht, che da’ questa possibilità agli studenti con 650+ nel GMAT. In altri casi ancora il GMAT stesso non è neanche obbligatorio, ma non averlo porta ad essere messi in fondo alla graduatoria, dietro a tutti gli applicants che hanno presentato uno score GMAT, e che sono ordinati per total score, come accade, ad esempio, alla Gothenburg University in Svezia.

E ancora, in certi casi è esplicitamente detto che la graduatoria viene fatta in base al total score del GMAT, in altri casi viene detto che il processo di ammissione è più “olistico”, dove quindi il test è solo uno degli elementi di valutazione.

Quindi, per farsi un’idea di quale sia il proprio target score, consiglio di prendere tutti i programmi cui si punta, e studiare bene le statistiche di ammissione sulla pagina di quel master.

GMAT richiesto per l’MSc in accountancy all University of Amsterdam
Un MSc di Imperial College London che non richiede obbligatoriamente il GMAT, ma che lo caldeggia
Statistiche di ammissione all’MSc in Finance presso Stockholm school of economics

Per farsi un’idea di quanto sarà difficile raggiungere un certo score si può dare un’occhiata ai dati ufficiali sul sito del GMAC (l’ente che propone il test), mba.com, dove si troveranno i percentili dei risultati.

Dalla tabella risulta che il risultato medio del test sia circa 570, mentre quello mediano è intorno al 590. Oltre la soglia dei 600 la scalata inizia a farsi più ardua (ottenere un 650 vuol dire essere nel 72° percentile) fino ad arrivare alla soglia del 700 (88° percentile), oltre la quale è veramente, veramente difficile andare.

Per dare un’idea generale di quale punteggio apre le porte a quale business school: un punteggio intorno al 550 tende a permettere l’ammissione a buone università, spesso o pubbliche o di grandi dimensioni (come per esempio l’università di Uppsala in Svezia); un punteggio intorno al 600-650 è generalmente considerato accettabile dalla maggior parte delle università, anche di alta caratura (ad esempio la Rotterdam School of Management), se si è tra il 650 e il 700 si può stare tranquilli di essere ammessi ovunque, tranne nelle grandi eccezioni cui si può sperare di accedere con un 700+, come Oxford, Cambridge, HEC Paris, Stanford, LSE, etc. (anche se per entrare in queste spesso il 700+ al GMAT non è nemmeno sufficiente, bisogna avere anche una media eccelsa e un gran curriculum). In ultimo, anche nella stessa università è possibile trovare grosse differenze di requisiti a seconda del programma: un esempio lampante è Stockholm School of Economics, che vede una mediana di 640 nel suo MSc in Accounting, ma una mediana spaventosa di 730 nel suo MSc in Economics.

Un ultima cosa da dire sul punteggio è che talvolta, oltre che all’ammissione, apre anche le porte a borse di studio e altre agevolazioni.

Detto questo, vediamo la struttura vera e propria del test.

Il test ha una durata di poco più di tre ore, due di queste sono allocate alle sezioni Quant (62 minuti) e Verbal (65minuti), mentre AWA e IR contano mezz’ora ciascuna.

Prima dell’inizio del test vengono date tre alternative sull’ordine in cui affrontare le tre sezioni, in pratica se fare prima quant, prima verbal, o prima AWA e IR. Qualsiasi sia l’opzione scelta, l’esame è diviso in tre blocchi da circa un’ora, tra i quali ci saranno dei brevi break da 8 minuti in cui andare in bagno e riposare gli occhi. 

Qua non ho consigli da dare, l’opzione migliore dipende dalla persona, io personalmente trovo che fare prima le due sezioni meno importanti sia un po’ stupido, siccome si spreca il picco di energia, ma altri mi hanno detto che preferiscono iniziare con quelle perché l’inizio è anche il picco d’ansia, de gustibus non disputandum.

Un aspetto importante del test è che (ad oggi) può essere fatto sia online che in presenza, ma le differenze tra le due opzioni non toccano la struttura del test. (consiglio, comunque, di farlo online perchè in Italia ci sono pochi testing centres, se non erro solo uno a Milano, uno a Trento e uno a Roma.)

Vediamo ora nel dettaglio le quattro sezioni:

Quantitative Reasoning

La sezione quantitative è quella “di matematica”: si compone di 31 quesiti a risposta multipla (sempre, e sono sempre 5 opzioni) da fare in 62 minuti, e questi quesiti possono essere di due tipi:

  1. Problem solving
  2. Data Sufficiency (DS)

Non c’è molto da dire sul primo tipo di domanda, sono problemi di matematica e logica di grande varietà, ma la loro struttura è tutto sommato familiare a chiunque abbia fatto un qualsiasi esame o verifica di matematica.

Non è invece così per gli esercizi del secondo tipo, data sufficiency: questi sono un tipo di domanda che si trova solamente nel GMAT: una domanda di DS si compone di uno “stem”, che può essere un’equazione, un problema verbale, un problema di geometria, un sistema di equazioni, o altro ancora. Questo stem è irrisolvibile di per se (per esempio, un’equazione in due variabili, tipo x+y=?), per risolvere la domanda posta nello stem vengono poi dati due statement (mettiamo, x=1 e y=2), i due statement sono da prendere come veri e non mutualmente esclusivi, la domanda che viene posta è sostanzialmente “puoi rispondere alla domanda dello stem con i dati che hai nei due statement?”. E le opzioni di risposta saranno sempre le stesse 5

a) per rispondere è sufficiente sapere il primo statement, ma non è sufficiente il secondo

b) per rispondere è sufficiente il secondo statement, ma non è sufficiente il primo

c) per rispondere sono necessari entrambi gli statement

d) entrambi gli statement, da soli, sono sufficienti a rispondere

e) anche con entrambi gli statement, non è possibile rispondere

Nell’esempio che ho dato, la risposta sarebbe quindi c.

Ripeto che la matematica trovata nella sezione quantitative non è eccessivamente complessa: non ci saranno, ad esempio, derivate o integrali, e neanche equazioni o disequazioni particolarmente complesse (cubiche, ad esempio). Tuttavia, tutto ciò che c’è prima è fondamentale, anche il saper fare moltiplicazioni e divisioni a mano, perché non è permesso l’uso di alcun tipo di calcolatrice. Tutto ciò che si avrà durante la prova saranno dei pennarelli cancellabili e una lavagnetta (se si sceglie di fare il test a casa) o dei fogli laminati (in presenza). Quindi, per preparare la sezione quant, la base è riprendere in mano tutto, dall’aritmetica delle elementari, all’algebra, alla statistica basilare (poca roba, tipo grafici a barre, mediana, range e poco altro.) e fare tanta, tanta pratica in modo produttivo (dopo aver descritto la sezione verbal entrerò nel merito della preparazione generale del GMAT.

Verbal Reasoning

Questa è la sezione “di inglese”: si compone di 36 quesiti cui rispondere in 65 minuti. I quesiti sono sempre a risposta multipla e le opzioni sono sempre 5. Quello  si valuta qui è la capacità di analisi e comprensione del testo, la velocità nel riconoscere errori, frasi inconcludenti, o fallacie logiche.

Dalla mia aneddotica posso dire che la difficoltà di questa sezione è estremamente soggettiva: per quanto riguarda me, è stata il mio punto forte, fin da subito ho iniziato a volare sul 70° percentile di punteggi, e alla fine del mio studio volavo sull’80° (mentre nella sezione quant sono andato sotto il punteggio mediano), ma per molti miei peer (anche di madrelingua inglese), questa sezione è incredibilmente più difficile.

Questo si nota anche dalla distribuzione dello scaled score: il punteggio mediano della sezione verbal è 28/51, mentre quello della sezione quant è intorno al 45/51, un differenziale abissale.

Questa soggettività dipende dall’abilità in lingua inglese: non sapere bene la lingua in questa sezione è un dramma, i testi sono estrapolati da studi accademici e tesi di laurea su argomenti lontanissimi dallo studente medio che fa il GMAT, e le altre task che vengono date potrebbero risultare addirittura impossibili a chi non mastica bene l’inglese.

Ci sono tre tipi di quesito nella sezione verbal:

Sentence Correction (SC): nella sezione verbal tra gli 11 e i 16 quesiti saranno di questo genere. Una domanda di SC consiste in una frase, di cui una parte (o l’interezza) sarò sottolineata. La parte sottolineata può contenere uno o più errori, e verranno proposti 5 modi di scrivere la frase, di cui uno corretto. È da notarsi che la prima opzione di risposta sarà sempre quella di riscrivere la frase esattamente come data nella domanda.

Molti trovano che la sezione SC sia la più difficile del verbal, questo perché le tipologie di errore sono molteplici (ci possono essere errori grammaticali, logici, o idiomatici), e perché spesso e volentieri la risposta corretta suona “sbagliata”, anche a un nativo anglofono.

Il modo migliore per procedere in questa sezione è quello di andare ad esclusione: riconoscere gli errori più immediati (generalmente quelli grammaticali, come l’assenza della “s” nella terza persona singolare, o un genitivo sassone messo a caso), per eliminare subito una o due opzioni, e potersi concentrare su quelle più ambigue. Questo per puro time management: è da tenere bene a mente che il tempo che andrebbe allocato in una domanda di verbal è di circa 2 minuti. Ad ogni modo, dopo aver eliminato le opzioni palesemente errate per grammatica, è consigliabile passare ad altri tipi di errori, ad esempio un mismatch tra soggetti, verbi e pronomi (ad esempio, il soggetto è “the flock of doves” ma poi ci si riferisce ad esso come “them”). Fatto questo, se ci sono ancora opzioni aperte, passare a cercare le fallacie logiche (ad esempio, una frase che inizia con “siccome…” ma non da mai una conseguenza). Quest’ordine è quello che con me ha funzionato meglio, ma so che molti usano altre strategia, per esempio cercare le fallacie logiche prima dei mismatch; è molto soggettivo, ma lo si capisce facendo pratica.

Reading Comprehension (RC): le domande di RC hanno una struttura parecchio intuitiva: viene dato un testo e al testo sono legati due o tre quesiti a risposta multipla. Non ho particolari consigli da dare a riguardo, siccome l’approccio è totalmente soggettivo, alcuni preferiscono leggere una volta sola il testo ma bene, altri preferiscono scorrerlo velocemente e poi cercare le risposte a seconda del quesito che stanno affrontando. Vorrei comunque dire che le domande di RC possono mettere un po’ di panico perché la lettura del testo può prendere molto tempo e quindi sballare il time management: a proposito preciserei che se anche leggere il testo prende 4 o 5 minuti, ciò non vuol dire che si siano spesi su una sola domanda, siccome le domande relative al testo saranno più di una. Un buon consiglio di time management sarebbe di prendere mentalmente nota del cronometro quando ci si trova di fronte un reading e farsi un appunto (per esempio, se si è al minuto 32, magari segnarsi 32+6, per dire che il blocco di RC da tre domande deve essere concluso entro il minuto 38, a prescindere da quanto tempo prenda la lettura).

Critical Reasoning (CR): le domande di CR sono abbastanza variegate, perché la sezione misura la capacità di valutare opinioni, elaborarle, o definire piani di azione. Una tipica domanda di CR si basa su un breve testo, magari uno scambio di opinioni, cui segue una serie di informazioni aggiuntive, con la domanda “quale di questi fatti, se vero, avvalorerebbe di più la tesi del primo interlocutore?”. Oppure, si chiede quale sia la fallacia logica nella tesi data, o, ancora, quale sia il ruolo di certe preposizioni all’interno del testo (ad esempio, questa parte è la tesi, quest’altra invece è un’argomentazione a supporto della tesi).

Le domande di CR sono generalmente reputate le più semplici della sezione verbal, ma dalla mia aneddotica, sono anche le meno numerose.

Integrated Reasoning (IR)

Questa è la prima di quelle che io chiamo “sezioni separate”, in quanto non concorrono al total score, ma hanno uno score a se. Le domande di IR sono molto variegate, ma sono tutte incentrate sulla capacità di leggere dati, grafici e tabelle, oppure di utilizzare questi dati per dare risposte a certi quesiti. Una domanda tipica di IR potrà partire da un istogramma (metti, temperature massime e minime dal 2010 al 2022), e sotto si dovrà rispondere a domande come “la temperatura massima mediana dal 2012 al 2022 è…”.

Di nota è che in questa sezione sarà per la prima volta disponibile l’utilizzo di una calcolatrice, ma non fisica, più che altro un programmino fornito nel software del test. Consiglio di fare un po’ di pratica con la calcolatrice virtuale perché è veramente scomoda.

Questa sezione dura 30 minuti, e si compone di 12 quesiti.

È largamente condiviso che sia la sezione più facile, nonché la meno importante. Per la sua preparazione consiglio solamente di non saltarla nei mock (ci arrivo dopo), e soprattutto di usare la calcolatrice virtuale. Tutto questo per non avere un punteggio che sfiguri (magari un 650 con un IR nel 20° percentile).

Analytical Writing Assessment (AWA)

L’AWA è una sezione curiosa, anche perché è l’unica a non essere a risposta multipla: essa consiste nella stesura di un testo in cui si analizza un’opinione data, trovando in essa gli errori logici nel ragionamento o nella formulazione dell’opinione. Il testo verrà poi valutato da un algoritmo e poi da un umano. Se il voto dato dell’algoritmo differisce troppo dal voto dato dall’umano, una seconda persona valuterà il testo.

L’AWA, come l’altra sezione separata, generalmente non è troppo importante, ma è da considerare che in un ristretto numero di casi, per l’application può essere richiesto un punteggio minimo per l’AWA (immagino per attestare che il candidato sarà in grado di scrivere essays e tesi convincenti presso l’università cui è candidato), quindi non è da trascurare totalmente.

Nella stesura del testo dell’AWA, il fondamentale è essere organizzati e schematici (si tenga sempre a mente che il testo è valutato da un computer, quindi più è schematico, più sarà di facile comprensione).

Quindi consiglio di scegliersi uno schema e usare sempre quello durante i mock tests, ad esempio

  • Paragrafo uno: descrivere la tesi che si andrà a criticare e le assunzioni su cui poggia, introducendo magari brevemente i problemi di quest’ultima.
  • Paragrafo due: prima fallacia
  • Paragrafo tre: altra fallacia
  • Paragrafo quattro: altra fallacia
  • Paragrafo cinque: conclusione, ribadire la debolezza della tesi data, e dire se ci sono degli elementi che potrebbero invece rafforzarla.

Questo è un esempio, ma ognuno dovrebbe provare a trovare uno schema personale. Altro consiglio è usare SEMPRE espressioni di collegamento tra i paragrafi e le frasi (in the first place, moreover, however, to conclude…) e cercare di fare quanti più esempi possibili.

Inoltre, preciso che non è necessario che le critiche all’opinione siano sagaci, originali e precise, l’AWA valuta più la capacità di esprimersi coerentemente che la capacità di essere originali e lapidari nelle critiche. Anche perché ragionare troppo sulle critiche da muovere può facilmente erodere il tempo a disposizione, che è solo di 30 minuti.

Ora che ho descritto in maniera approfondita le sezioni e la struttura del test vorrei trattare la preparazione dello stesso. Questo perché ho notato (sia in seguito alla mia preparazione che a quella di amici e contatti via web) che la parte più difficile nel preparare il test è paradossalmente iniziare a studiare.

Questo perché, come già detto, il test non è un esame per cui ci si prepara in maniera lineare (compro i libri e studio).

La preparazione del test

Le risorse con cui prepararsi

Per la preparazione del test si possono usare diverse risorse, libri, video, forum, lezioni private e piattaforme online. È estremamente soggettivo quali e quante ne servano, in quanto dipende dal proprio punto di partenza, dal proprio target score, dal proprio livello di inglese e altre variabili. Ad ogni modo, ce ne sono due che non possono essere trascurate da nessuno studente: La GMAT Official guide e MBA.com.

La GMAT Official guide (OG) è una collana di tre libri, pubblicata direttamente dal GMAC. I tre libri sono la OG, la Quantitative review e la Verbal Review. Questi tre libri sono uno degli unici due modi per avere a disposizione domande ufficiali dei test passati. La OG da’ un mix di tutte le sezioni, mentre le altre due hanno un focus sulle due sezioni principali. È da sottolineare che questi testi non presentano “nozioni” utili, ma praticamente solo esercizi, ciononostante sono reputati il sacro graal per la preparazione del test, in quanto fare pratica è una delle poche cose che si possono fare per migliorare il proprio punteggio.

Non è necessario comprare l’ultima edizione della OG, anche prendere quella di un paio di anni prima va bene e permette di risparmiare un po’ di soldi. Tuttavia, è fondamentale, a mio parere, che in quell’edizione sia compresa la chiave per l’accesso alla piattaforma online Wiley. Su questa piattaforma si troveranno gli stessi quesiti della guida cartacea, più alcune esclusive del sito. La cosa importante, però, è che la piattaforma ha una funzione di “question builder”, ovvero la possibilità di costruirsi degli assesment personalizzati, con un tot di domande di verbal, quant o altro, e addirittura aggiungere filtri per selezionare solo domande di un certo tipo o su un certo argomento. Il software poi lancerà l’assesment come se fosse in sede di esame, con un cronometro, permettendo di lavorare anche sulle proprie capacità di time management. Io consiglio di usare questa piattaforma, piuttosto che il libro.

MBA.com è il sito ufficiale del GMAC, da qui si prenota il test e si inviano i risultati alle università dopo averlo sostenuto. Ma non finisce qui: su questo sito si trova anche l’unica possibilità (in assoluto) di fare dei mock test veritieri dell’esame. I mock test permettono di simulare l’esame, e confrontarsi col vero algoritmo che ci si troverà di fronte il fatidico giorno. Questo è l’unico modo attendibile di testare la propria performance, ricevendo istantaneamente il punteggio.

Sul sito sono disponibili sei mock in totale, di cui i primi due gratuiti per chiunque si registri al sito, e gli altri 4 acquistabili (a un prezzo di circa 25 euro l’uno). Quindi lo dico subito: queste possibilità NON vanno sprecate. I test possono essere rifatti, ma le domande saranno simili, e quindi il punteggio non sarà assolutamente rappresentativo. Una volta esauriti i mock, non si potranno più fare test per vedere dove ci si trova in termini di punteggio, e per qualcuno che punta a punteggi alti (700+), questa sarebbe una tragedia. Il mio consiglio è di fare il primo mock test dopo essere già molto familiari con la struttura del test e aver colmato certe lacune basilari (per esempio i termini matematici in lingua inglese, sarebbe una tragedia perdere punti su un mock ufficiale perché non si ha presente il significato di “integer”).

Queste due resources sono imprescindibili per la preparazione. Ma ce ne sono altre, facoltative:

Ci sono dei libri (non ufficiali) che fanno da guida attraverso tutti i concetti che servono a rispondere alle domande del GMAT, ad esempio tramite un mega ripasso di tutta la matematica che viene testata, dalle operazioni in colonna alla statistica. Un esempio la GMAT strategy guide offerta da Manhattan prep.

Questi libri possono essere molto utili perché velocizzano il ripasso di matematica e inglese, per evitare di tirar fuori i vecchi libri delle elementari, medie e superiori.

Un altro modo di fare questo ripasso è usare delle piattaforme online, come il Target Test Prep (TTP), che io ho usato. Questa piattaforma genera un “corso” di e-learning personalizzato in base a quanto tempo si ha prima delle scadenze, e procede a spiegare nel dettaglio qualsiasi piccolezza matematica o verbale, con continue domande per argomento e mock test (non ufficiali), oltre che strategie molto importanti di time management e analisi dei quesiti. Questa è una delle risorse più costose a cui ci si possa rivolgere, ma anche una delle più facilmente approcciabili, perché presenta “la pappa pronta”, e lo studente deve solo mettersi la e seguire il corso, prendendo appunti e rispondendo alle domande e ai test periodici.

Un altro mezzo interessante è il forum gmat club. Non l’ho usato molto, personalmente, ma ci sono tante cose interessanti, è popolato da tutor e studenti, e ha in se una sorta di question builder non ufficiale, in cui si può scegliere anche le domande in base alla difficoltà. È particolarmente utile per scontrarsi con gli argomenti più ostici, o per conoscere qualche peer candidato alle stesse università.

In ultimo, c’è l’opportunità di seguire corsi e tutoring individuali o di gruppo. Questa è decisamente la possibilità più costosa, ma leggendo in giro sembra anche che sia la più efficace, soprattutto se i tempi sono stretti. Noi di Invenicement abbiamo ospitato un seminario con i tutor di 700+ Club, che fornisce il servizio.

Questi sono i tipi di risorsa che ho visto citati in giro per i forum e nelle community legate al test, prima di scegliersi le proprie, però, consiglierei di testare il proprio potenziale nel test, ne parlo ora nell’ultima sezione relativa al test: come prepararlo, in pratica.

Come studiare

Come già detto, l’approccio migliore è soggettivo, ma i primissimi steps sono a mio parere abbastanza standard, il mio consiglio per iniziarea prepararsi è questo:

  1. Studiare la struttura del test (praticamente quello che si trova in questo articolo)
  2. Fare il test diagnostico sulla piattaforma Wiley, per riconoscere fin da subito le proprie aree deboli
  3. Familiarizzare con i quesiti di tutte le sezioni, e in particolare col linguaggio utilizzato e col cronometro, tramite l’utilizzo del question builder su Wiley.

Dopo aver fatto questo, ed essere arrivati ad un livello dove si riesce a rispondere a tutte le domande (in maniera giusta o sbagliata, poco importa) prima dello scadere del tempo, è il momento di fare il primo mock, ma NON uno di quelli ufficiali di MBA.com, bensì un mock non ufficiale, che si trova sul sito di Manhattan prep (www.kaptest.com), questo mock va fatto in maniera più veritiera possibile: senza calcolatrice, seguendo i tempi e le pause del test vero, e tutto nella stessa sessione. L’algoritmo del mock non ufficiale è ovviamente diverso da quello del GMAT vero, ma è molto vicino, il punteggio che verrà dato dovrebbe essere circa trenta punti inferiore a quello che si potrebbe prendere in un mock ufficiale, perché la sezione verbal è più difficile. Quest’ultima cosa l’avevo letta prima di farlo io stesso, e sono rimasto di sasso quando si è rivelata perfettamente vera: al mock non ufficiale ho preso 570, in quello ufficiale, fatto pochi giorni dopo, ho ricevuto un 600.

Il mock di Manhattan prep dovrà essere un monito, perché sarà difficile alzare il punteggio ricevuto lì, e questo lo metto bene in chiaro. Alzare il punteggio del GMAT diventa esponenzialmente più difficile man mano che ci si alza coi punti. Io, in due mesi di studio intensivo, l’ho alzato solo di 30 punti (il mio risultato il giorno del vero test è stato di 630). Quindi si prenda questo primo risultato come una botta di realtà: se si punta ad andare all’HEC Paris o alla London School of Economics, e il primo risultato è 500, o si rivedano i propri piani, o ci si prepari a studiare veramente intensamente, anche con l’utilizzo di risorse costose, o ancora ci si prepari all’idea di prendersi un anno in cui studiare per il test. Alcuni studenti con cui ho discusso online sono stati anche più anni a preparare il test, perché avevano intenzione di andare ad Harvard, Stanford, o Oxbridge, e nulla di meno. Sono scelte di vita da fare con coscienza.

Dopo questo primo test, inizia la preparazione vera. Il confronto tra risultato target e il primo risultato ottenuto dovrà far riflettere su come procedere in termini di investimento di tempo e denaro. Ma ci sono un paio di consigli che darei a chiunque, a prescindere dal livello:

  1. Tenere un error log: questo vuol dire avere un foglio excel (o cartaceo), in cui segnare tutti i propri errori, segnando il quesito, il tipo di errore, il perché si sia commesso tale errore, e il modo per evitare di commetterlo di nuovo. Questo permetterà di studiare efficacemente, invece di risolvere domande su domande per poi guardare solo la soluzione corretta e dire “ah che scemo”, per poi rifare lo stesso errore subito dopo.
  2. Prendere appunti sulle cose basilari di matematica: non prendiamoci in giro, nessuno si ricorda davvero come si facciano le divisioni con carta e penna, soprattutto quando ci sono decimali di mezzo. Ecco, consiglio di fare molta pratica con le operazioni di base, perché spesso e volentieri capiterà di aver capito come risolvere un quesito di PS, ma non riuscire a trovare il risultato perché non si sa fare una moltiplicazione con numeri decimali, è un peccato.
  3. Usare flash cards per ricordarsi le formule: non servono tante formule per il GMAT, ma è un peccato dover tirare a caso in una domanda di geometria facile perché non ci si ricorda la formula del volume di una sfera o quella per il calcolo dell’interesse composto.
  4. Sviluppare (o cercare su internet) delle strategia di risposta che velocizzino il processo: questo vuol dire per esempio capire come escludere velocemente le opzioni di risposta nelle domande di DS.
  5. Rendersi conto che, a meno che non si punti a 700+, non serve rispondere correttamente alle risposte difficili, ma quello che serve è non sbagliare mai quelle facili. Già avere un tasso di risposta del 90%+ nelle domande facili porterà vicino al 600, che realisticamente è il target di una grossa parte dei test takers.

Chiusura e consigli vari

Una volta che si sono raccolti i documenti e si sono fatti i test, rimane solo da aspettare l’apertura delle admissions, seguire le loro procedure, e pregare (a seconda dei casi). Qua può nascere un piccolo problema: solente le risposte alle candidature arrivano in momenti molto diversi, e quindi di conseguenza ci si potrebbe trovare in una situazione in cui si è ricevuta un’offerta da un’università, ma la si deve ancora ricevere da altre università che magari sono più in su nella nostra lista di preferenze, specie se ci si è candidati ad università in paesi diversi. Purtroppo a questo non si può ovviare facilmente. Consiglio caldamente di farsi un piano strutturato di previsione delle risposte, perchè spesso le università si aspettano una conferma all’offerta nel giro di pochi giorni.

Io a questo ho parzialmente ovviato perchè mi sono candidato con largo anticipo ad una business school (mia prima preferenza) che ha il sistema delle rolling applications, che consiste nel non avere una deadline precisa dopo la quale vengono mandate tutte le risposte, ma rispondere alle domande man mano che arrivano, fino ad esaurimento dei posti. Questo mi ha permesso di ricevere la risposta della mia prima preferenza prima che mi rispondessero le altre che non avevano lo stesso sistema. Consiglio quindi, nel caso nel proprio portafoglio di scelte ci fossero università con questo sistema, di calibrare bene il momento in cui mandare ad esse la candidature, così che se queste fossero tra le prime preferenze, siano le prime risposte ad arrivare, e se invece siano “il piano B” (o C), siano le ultime.

Consiglio inoltre di far uso di eventuali early bird deadlines, così da potersi organizzare bene per l’alloggio e altre cose.

Ora, di una cosa non ho parlato durante tutto l’articolo: i costi. Chiaramente vivere all’estero tende a costare molto, sopratutto se si punta al nord europa, ma ci sono un paio di paesi dove il rapporto qualità prezzo delle università potrebbe rendere più vantaggioso l’investimento:

Paesi Bassi: studiare nei paesi bassi permette di ambire ad alcune delle business schools più presigiose del continente, e del mondo (Rotterdam school of management, UvA Business school, Erasmus school of Economics…) pagando bene o male quello che si paga in italia (intorno ai 2000 euro all’anno)

Svezia: La svezia, come tutti i paesi scandinavi nell’UE, a quanto ne so, non ha tuition fees per gli studenti EU/EEA. Questo vuol dire che si può studiare in università top al mondo, anche private (prima tra tutte la Stockholm School of Economics, già citata diverse volte in questo articolo) fondamentalmente gratis.

Danimarca: Oltre ad avere la stessa caratteristica di gratuità della Svezia, aggiunge anche la possibilità di ottenere un grant di circa 800 euro al mese (l’SU), anche se agli studenti internazionali questo viene erogato solo se essi trovano un lavoro part time (circa 20 ore al mese).

Un’ultima cosa che vorrei trattare sono i “rankings” delle università. Nei primi momenti, quando stavo carezzando l’idea di andare a studiare all’estero, le ho praticamente imparate a memoria. Questi rankings (Qs rankings, Shangai Ranking, e Financial Times Higher Education) sono sicuramente divertenti da consultare, ma col senno di poi non credo bisognerebbe scegliere le proprie università target solo in base a quello, sicuramente non ordinare le proprie preferenze in base al loro posto in classifica.

Consiglio invece di consultarle per farsi un’idea di quali università possano essere interessanti da tenere d’occhio, per poi ordinare il proprio portafoglio scelte in base a criteri personali: materie insegnate nel programma, opportunità di internship, employability, nazione in cui si trovano e prospettive di rimanerci, eccetera.

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GUERRA RUSSIA-UCRAINA: UE E USA IMBRACCIANO “LE ARMI”

Febbraio 28, 2022 by Annamaria Malvestio Lascia un commento

Nel 1991 l’Ucraina è stata riconosciuta indipendente dalla Russia. Nonostante ciò, la Russia non ha mai accettato la perdita del territorio ucraino. È per questo che nel 2014 scoppia la crisi russo-ucraina, in seguito all’annessione della Crimea (territorio ucraino) alla Federazione. L’Ucraina è lacerata. Alla crisi della Crimea seguono gli scontri nei distretti Donetsk e Lugansk, nella regione del Donbass, che portano a dichiarare queste circoscrizioni repubbliche popolari indipendenti. Inizia, così, un conflitto tra le milizie separatiste filorusse e le forze armate del governo di Kiev. 

C’è da chiedersi perché le tensioni geopolitiche tra Russia e Ucraina siano esplose, portando alla recente invasione russa nel territorio ucraino.

Fattore scatenante è certamente la possibile adesione dell’Ucraina alla NATO. Opponendosi all’ingresso di Kiev nell’alleanza militare atlantica, il Cremlino accusa l’occidente di voler circondare militarmente la Russia. Dunque, sentendosi minacciato, il 22 febbraio Putin riconosce l’indipendenza dei territori del Donbass, inviando le sue truppe oltre confine. Nel discorso alla nazione del presidente russo emerge un rigoroso spirito nazionalista: “l’Ucraina è parte integrante della nostra storia e cultura”.

Gli Stati Uniti d’America rispondono alla provocazione del Presidente russo con delle misure sanzionatorie, principalmente riguardanti il settore economico. Sebbene il governo americano continuerà a rifornire l’Ucraina di armi difensive, ha ribadito più volte di essere contrario al ricorso alle armi, ma d’accordo all’applicazione di sanzioni economiche. Gli Stati Membri dell’Unione Europea seguono le orme degli americani, senza evidentemente considerare i rischi in cui incorrono. Infatti, i Ventisette dipendono largamente dalla Russia per volume di importazione di merci e di materie prime. Perciò, limitare import ed export da e per l’Unione Sovietica aumenterebbe esponenzialmente i prezzi dell’energia, come già si sta verificando. La ripresa economica post-Covid in tutta Europa potrebbe essere minata.

LE SANZIONI ECONOMICHE

Agendo contro le istituzioni finanziarie russe, alle banche d’America è vietato gestire le transazioni dell’istituto di sviluppo VEB e della banca militare russa, poiché finanziatrici delle operazioni militari nel Donbass. Anche l’UE colpisce le banche che finanziano le operazioni militari in Ucraina.

Inoltre, Joe Biden propone l’esclusione della Russia dai finanziamenti occidentali, impedendo a Mosca di scambiare nuovi titoli del debito russo sui mercati finanziari europei e statunitensi.

La lista degli “Specially Designated Nationals” (SDN) accoglierà i nomi di individui e società russe a favore dell’invasione, a eccezione del presidente Putin. Si tratta di miliardari esponenti della Duma e coinvolti nelle decisioni russe in Ucraina. Questo strumento permette di espellere i soggetti russi coinvolti nel sistema bancario americano. Di conseguenza al congelamento di conti e beni che si trovano sotto la giurisdizione statunitense, agli individui sanzionati è impedito il commercio. 

Altresì, il governo americano ha premuto per fermare l’entrata in funzione del gasdotto Nord Stream 2. Perciò, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha proceduto ad una temporanea interruzione delle pratiche di certificazione dell’impianto. Le sorti del Nord Stream 2 determinano gli equilibri tra Occidente e Russia. Se da una parte l’Europa dipende dalle forniture di Gazprom, colosso dell’energia controllato dal Cremlino, dall’altra l’economia russa, fondata sugli idrocarburi, non può permettersi di perdere il suo principale acquirente di gas. 

Di fronte all’evidente necessità per nazioni come l’Italia di mantenere buoni rapporti con il Cremlino per garantirsi la sussistenza economica, un nuovo pacchetto di misure sanzionatorie risulta rovinoso. Nonostante ciò, la Commissione Europea si sarebbe proposta a sostenere i più vulnerabili… Sarà davvero così?

QUALE SAREBBE L’OBIETTIVO DI QUESTE SANZIONI?

Peter Harrell, massimo esperto di governo economico statunitense, descrive le sanzioni economiche come fattore fondamentale per innescare l’inflazione, nell’auspicio che, di fronte all’aumento dei prezzi, la banca centrale russa si preoccupi di pensare all’interesse delle banche locali.

Così si spiegherebbe il perché della decisione di Boris Johnson di colpire le banche russe Rossiya, IS Bank, General Bank, Promsvyazbank e Black Sea Bank.

Se l’instabilità delle banche ucraine non spaventa gli occidentali, quella delle banche russe infonde preoccupazione. Di fatto, le grandi banche italiane, francesi e austriache UniCredit, Intesa Sanpaolo, Societe Generale e Raiffeisen Bank contribuiscono ad un totale attivo di circa 50 miliardi. Le banche svizzere contano più di 20 miliardi di passività da clienti russi.

Tuttavia, anche se queste sanzioni economiche possono sembrare salvifiche per l’Europa e l’America, non è detto che lo siano alla stessa stregua per entrambi i paesi. L’emergere di una profonda crisi economica in Russia comprometterebbe la qualità e la redditività delle attività bancarie russe. Così, anche la redditività delle banche europee si indebolirebbe.

È, dunque, opportuna la scelta di imbracciare una serie di sanzioni economiche per fronteggiare l’avanzare della guerra?

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Vita e bugie del Reddito di Cittadinanza

Novembre 15, 2021 by Umberto De Ambrosi Lascia un commento

Intenzioni e requisiti

Il Reddito di Cittadinanza, cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, è stato immesso nel contratto di governo a partire dal 18 maggio 2018. Si tratta di una politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale tramite un sostegno economico ad integrazione dei redditi familiari. Finalizzato al reinserimento lavorativo e sociale, le intenzioni del RdC sarebbero nobilissime. Casomai è il mezzo con il quale è erogata questa politica ad essere inefficiente traducendo il tutto in un (altro) spreco. Vediamo nel proseguo dell’articolo il perché.

Requisiti economico-patrimoniali

Per poter accedere al RdC sono previsti alcuni requisiti economico-patrimoniali: Isee sotto un determinato valore, patrimonio mobiliare e immobiliare limitato, divieto di possedere alcuni beni e un reddito familiare inferiore a 6mila euro (per un nucleo composto da un single) e non superiore a 12.600 euro per i nuclei con più componenti.

Requisiti Reddito di Cittadinanza in breve…

Come si spende il RdC?

Il Reddito di Cittadinanza viene erogato tramite una PostePay (non distinguibile dalle altre per questioni di privacy) ed è possibile pagare beni, prelevare contanti (con un tetto di 100€ al mese) ed effettuare bonifici per il pagamento di mutui o affitti. L’ammontare non speso alla fine del mese è sottratto nella mensilità successiva.

Chi paga il RdC?

A differenza dei sussidi ai poveri arrivati agli italiani Illo tempore grazie al piano Marshall, non si tratta più di soldi provenienti dall’estero e nemmeno di contributi dell’Unione europea: le fonti del Reddito di Cittadinanza sono denaro proveniente dalle casse erariali dello stato. In buona sostanza, non avendo lo stato italiano un avanzo di gestione, si tratta di denaro che viene ottenuto grazie alla vendita di titoli pubblici (BOT e BTP). Per il suo finanziamento il Reddito di Cittadinanza attinge anche da imposte dirette (Irpef, Ires), e indirette come l’IVA. Una parte di questi soldi, quindi, verrà restituita agli italiani più poveri non solo per garantire condizioni socialmente dignitose, ma anche con la speranza che questi li spendano, rimettendo in circolo ciò che è stato loro dato (e, con esso, l’economia nazionale).   

Da questo punto di vista, il reddito di cittadinanza funge da strumento di redistribuzione del reddito non solo per garantire condizioni socialmente dignitose, ma anche come stimolo del mercato interno per l’economia nazionale.

Impatto del volano Keynesiano

La visione keynesiana e interventista dell’economia, sta spingendo molti leader politici ad approfondire il ruolo dell’intervento pubblico, in particolare degli investimenti infrastrutturali come strumento per combattere la stagflazione. Questo ha ridato forza alle tesi di molti economisti circa la possibilità di poter uscire dalla crisi per mezzo delle politiche cosiddette ‘’keynesiane’’, figlie di uno degli economisti più in vista del ‘900.

Ma cosa sostengono le politiche keynesiane?

Keynes, padre della macroeconomia, ha spostato l’attenzione dell’economia dalla produzione di beni alla domanda aggregata, osservando come in talune circostanze quest’ultima sia insufficiente a garantire la piena occupazione.

Questi aveva sostenuto che 1 sterlina data all’impresa si moltiplica sull’economia nazionale: l’azienda che può disporre di maggiori entrate tende a investire (la propria vocazione è infatti aumentare il proprio business) e ad assumere altre persone. Il che significa più stipendi pagati e più lavoratori disposti a spendere per i propri bisogni familiari. La maggiore spesa si risolve anche in un aumento delle entrate fiscali per lo Stato, grazie alle imposte dirette e indirette. È celebre un suo annuncio alla radio nel ’31: << Oh, massaie che avete amor di patria, uscite domani di buon’ora per strada e andate alle magnifiche svendite, e abbiate il piacere aggiunto di sapere che state aumentando l’occupazione e contribuendo alla ricchezza del paese>>.

Conseguenze delle politiche di interventismo statale

Nel breve periodo, l’erogazione di un reddito di cittadinanza potrebbe avere un impatto positivo su produzione e occupazione, sebbene più contenuto rispetto ad un investimento pubblico in infrastrutture.

Nel lungo periodo, invece, una volta esauritisi gli effetti di breve termine delle politiche, per ripristinare gli effetti positivi dell’assistenzialismo, sarebbe necessario sostenere un investimento di consistenza ancor maggiore del precedente, con conseguente aggravamento del deficit di bilancio e, in prospettiva, con un notevole aumento del debito.


Analisi tecnica del Reddito di Cittadinanza

Secondo uno studio promosso dall’Osservatorio sui Conti Pubblici dell’Università Cattolica, per valutare il Reddito di Cittadinanza bisogna approfondirne due aspetti: la valutazione della soglia di povertà e il trade-off con il lavoro.

Valutazione della soglia di povertà

Per effettuare il confronto, lo studio analizza tutti i paesi dell’Unione Europea e confronta l’Italia con tutti gli altri 27 paesi (Regno Unito compreso). 

La soglia individuata dal disegno di legge corrisponde a quella di povertà che era stata prevista per il 2014, così come definita da Eurostat, pari a 780€ mensili per una persona singola (con i dati 2016, questa si è alzata a 812€). Nel disegno di legge si prevede che tutte le persone che percepiscono un reddito netto inferiore a tale soglia raggiungano attraverso un trasferimento dallo stato un reddito di 780€. Quindi, se una persona dichiara un reddito di 400€, altri 380€ gli verrebbero versati dallo Stato.

Spiegazione attraverso il grafico del rapporto tra soglia di povertà e reddito minimo garantito in ogni paese EU

In nessun paese UE esiste un trattamento simile. L’Italia sarebbe l’unico paese in cui il reddito garantito sarebbe uguale alla soglia di povertà ed è qui che fuoriesce il concetto di trade- off con il lavoro approfondito nel prossimo paragrafo.

Grafico che evidenzia il rapporto tra reddito minimo e reedito medio pro-capite

Trade-off con il lavoro

Oltre a un livello di sussidio relativamente elevato, il rischio di un effetto perverso sull’offerta di lavoro proviene anche dal minore collegamento previsto tra il beneficio e la partecipazione in programmi di attivazione e/o accettazione dell’offerta di lavoro. Le previsioni parlavano di un milione in meno di disoccupati, ed è accaduto il contrario: chi prende questo sussidio smette di cercare lavoro. Prima del RdC, un’entrata seppur minima andava guadagnata, mentre ora la ricerca di un impiego è resa sconveniente dallo strumento.

La SVIMEZ, afferma che l’impatto del Reddito di Cittadinanza sul mercato del lavoro non solo è stato nullo, ma per certi versi negativo: “Con l’entrata in vigore del RdC ci si aspettava un aumento del tasso di partecipazione e del tasso di disoccupazione che nei cinque mesi trascorsi non c’è stato. Anzi, le persone in cerca di un’occupazione si sono ridotte di circa 2-300mila unità.”.

La trappola della povertà – Un esempio oltreoceano

L’Earned Income Tax Credit statunitense è un tipo di sussidio che aiuta i cosiddetti working poors, i quali ricevendo una quota di sussidio per le ore lavorate sono incoraggiate ad entrare nel mercato del lavoro e a ricevere un aiuto se e solo se il reddito non fosse sufficiente al nucleo familiare.

Il reddito di cittadinanza in Europa

In Europa, numerosi Paesi hanno da tempo introdotto forme di reddito minimo garantito al fine di assicurare condizioni di vita dignitose alla maggior parte dei cittadini. Tali trasferimenti hanno le stesse ambizioni del RdC ma sono attuati in modi diversi.

Germania

In Germania sono previste tre diverse misure in favore dei cittadini tedeschi, rifugiati politici e stranieri dei paesi Ue che hanno sottoscritto il Social Security Agreement. La durata di queste forme di sostegno è illimitata, ma ogni 6 mesi è previsto un controllo per verificare la permanenza dei requisiti richiesti per l’erogazione. Gli abili al lavoro devono seguire programmi di reinserimento lavorativo e accettare offerte lavorative congrue.

Danimarca

In Danimarca è adottato il modello dell’assistenza sociale che prevede il riconoscimento a chi ha compiuto 25 anni di 1.325 euro (l’aiuto per l’affitto è a parte) e 1.760 per chi ha figli. Gli abili al lavoro devono cercare un’occupazione e accettare offerte congrue alla loro formazione, in caso contrario il sostegno è sospeso. Il sussidio, chiamato ‘kontanthjælp’, è tassabile e in caso di assenza dal lavoro senza giustificati motivi è ridotto in base alle ore perse.

Francia

In Francia al Revenu de Solidarité Active ha diritto chi è residente da più di 5 anni e ha compiuto 25 anni o chi è più giovane purché con un figlio e 2 anni di lavoro curricolare. L’aiuto dura 3 mesi, è rinnovabile e cresce con l’aumentare del numero dei figli. Il beneficiario deve dimostrare di cercare un’occupazione e di partecipare a programmi di formazione. L’importo del beneficio diminuisce con l’aumentare del reddito da lavoro.

Inghilterra

Nel Regno Unito il reddito minimo è garantito solo previa verifica del reddito dei richiedenti. L’Income Support è previsto per aiutare chi non ha un lavoro full time e vive sotto la soglia di povertà. Se permangono le condizioni di indigenza è illimitato anche se varia in base all’età, alla composizione della famiglia, alla presenza di eventuali disabilità e alle risorse a disposizione dei beneficiari. Per gli iscritti nelle liste di disoccupazione è previsto un aiuto specifico purché il candidato si rechi ogni due settimane in un Jobcenter e dimostri che sta cercando attivamente un impiego. Lo Stato aiuta anche chi deve pagare l’affitto e ha figli. L’income support parte da 57,90 sterline a settimana e può arrivare sino a 114,85 sterline a settimana.

Due anni di RdC (in numeri).

Grafico dei nuclei percettori del reddito di cittadinanza negli ultimi 2 anni

I nuclei familiari che percepiscono il Reddito di Cittadinanza a marzo 2021 sono 1,04 milioni, per un importo medio di €584.

Chi sono i beneficiari

A marzo 2021 a prendere il Reddito di Cittadinanza erano 887mila nuclei familiari di cittadini italiani, 46.780 di cittadini europei e 98.900 di cittadini extracomunitari con permesso di soggiorno. I primi prendono un importo medio di 595 euro, i secondi di 563 euro e i terzi di 502 euro.

La maggioranza relativa dei nuclei familiari (479mila) che prende Reddito o Pensione di Cittadinanza è in realtà costituita da una singola persona. Hanno due componenti 220mila nuclei, tre componenti 186mila, quattro componenti 150mila, cinque componenti 66mila e sei o più componenti 30mila. Circa un terzo dei nuclei ha almeno un minore e l’importo nelle famiglie con minori è mediamente pari a 670 euro contro i 501 euro delle famiglie senza minori.

La distribuzione geografica

La popolazione coinvolta dalle due misure è molto variabile a livello regionale. Il massimo lo si ha in Campania con l’11,7% della popolazione coinvolta, mentre il minimo in Trentino Alto Adige con lo 0,6%. Complessivamente il RdC e la PdC coinvolgono l’1,6% della popolazione nel Nord, il 2,9% nel Centro e il 9,0% nel Sud. L’importo medio è pari a 589 euro al Sud, a 518 euro al Centro e a 488 al Nord. Il Trentino Alto Adige con 395 euro è quella con l’importo medio minore e la Campania con 625 euro quella con l’importo maggiore.

Mappa che evidenza la percentuale della popolazione coinvolta da Reddito o Pensione di Cittadinanza

I navigator

La parola “navigator” entrò nel dibattito pubblico alla fine del 2018, quando Luigi Di Maio ne parlò durante una trasmissione televisiva. Di Maio spiegò che i navigator sarebbero stati dei “facilitatori”, assunti per lavorare nei Centri per l’impiego con il compito di aiutare i beneficiari del reddito di cittadinanza a trovare un lavoro. Dopo un’articolata selezione, ne furono assunti 2.978.

Secondo un comunicato stampa rilasciato dall’Anpal nel 2020 erano circa 196 mila i percettori di reddito di cittadinanza che avevano trovato lavoro, su una platea di 1 milione e 49 mila persone: il 19 per cento. Un risultato un po’ deludente a fronte della spesa sostenuta.

Ad oggi, tuttavia, nella legge di bilancio non è stato previsto il loro rinnovo del contratto. Al loro posto vi saranno agenzie per il lavoro iscritte all’Albo.

Scritto da De Ambrosi Umberto

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Due parole sul rincaro delle bollette e sulla questione energetica in Europa

Ottobre 4, 2021 by Piergiorgio Belfi 2 commenti

Da qualche settimana uno dei topic centrali nel dibattito pubblico è quello del rialzo delle bollette: dal famoso incremento del 40% annunciato dal ministro della transizione energetica Roberto Cingolani a metà settembre, alla comunicazione dell’Autorità di regolazione per Energia (ARERA) di fine mese, che annuncia un aumento del 29.8% dal primo di ottobre.

L’intervento del governo

L’aumento decisamente notevole è stato calmierato solo tramite un decreto d’urgenza dell’attuale governo. Precisamente, ARERA dichiara che il 29.8% citato prima è stato un differenziale tra l’incremento del costo della materia prima (+41.5%) e lo storno degli oneri generali di sistema voluto dal governo (-11.7%). Se i costi dovessero aumentare ancora, il governo, volendo intervenire ancor allo stesso modo, potrebbe chiedere ad ARERA di azzerare o diminuire altre componenti, come le spese di regolazione e distribuzione, o distribuire altri bonus alle famiglie ma non si può dire che sia una soluzione al problema. Da cosa deriva, dunque, l’aumento dell’energia?

Le cause dell’aumento del costo dell’elettricità e del gas

In breve, dall’aumento dei costi delle materie prime necessarie a produrre l’energia. Per capire l’impatto del costo di petrolio e gas sui costi di produzione dell’energia italiana, è utile dare un’occhiata all’electricity production mix, la ripartizione delle fonti di produzione di energia elettrica nel paese.

Risulta evidente che a dominare sia il gas naturale. Sommando tutte le rinnovabili si arriva a un buon 46% di energia pulita, tuttavia è da tenere in considerazione che qui si sta guardando solo alla produzione di elettricità, ben differente dal fabbisogno di elettricità, a cui bisognerebbe aggiungere un buon quantitativo di energia importata dall’estero (più del 10%). Ancora più importante è la differenza dal fabbisogno energetico: l’energia non è solo elettrica, si pensi al carburante necessario ai trasporti e alla produzione industriale. Nel consumo energetico totale è di gran lunga più dominante lo share di energia prodotta da fonti non rinnovabili, con gas e petrolio che da soli producono quasi l’80% dell’energia consumata.

Questo è importante per comprendere l’impatto dei rialzi dei prezzi di gas e petrolio. Ed è anche importante per fare dei paragoni con altri paesi europei, ci arriviamo più tardi.

Le scalate del prezzo di gas naturale e petrolio

Per quanto riguarda il petrolio, è utile guardare le tavole dei prezzi dei due benchmark petroliferi più utilizzati (tipi di petrolio su cui si basano i prezzi degli altri petroli per aree geografiche e settori).

Il West Texas Intermediate (WTI), utilizzato come punto di riferimento per il mercato petrolifero USA e il Brent, il riferimento del mercato petrolifero in generale, in particolare per Europa, Africa e Medio Oriente. Entrambi i Benchmark presentano, negli ultimi anni, trend uguali: entrambi hanno avuto un crollo nella primavera del 2020 per ovvi motivi (il WTI è addirittura andato in negativo per la prima volta nella storia). Da allora c’è stata una tendenziale risalita, avvicinandosi ora al prezzo più alto da ottobre 2019, con un aumento rispetto alla primavera dell’anno scorso di quasi il 200%. L’aumento del prezzo del petrolio è causato in parte dall’aumento tendenziale della domanda, per la ripartenza delle attività produttive dopo lo stallo della pandemia, e in parte perchè legato al prezzo del gas, che vediamo nel blocco successivo.

Andamento storico del WTI Crude (5 anni)

Andamento storico del Brent (5 anni)

Il prezzo del gas, invece, è aumentato del 30% nel solo secondo semestre del 2021 (guardando l’andamento dei prezzi e dei futures della Title Transfer Facility (TTF), Hub principale dello scambio di gas naturale in Europa) e sta continuando ad aumentare per una concomitanza di fattori: dall’alta domanda, all’esaurimento di giacimenti nel mare del nord, alla riduzione delle esportazioni di gas russo verso l’UE.

Andamento futures del gas Naturale TTF (da ICE Endex)

L’effetto dell’ETS

Alla scarsità di gas e petrolio si aggiunge poi l’effetto dell’Emission Trading System dell’Unione. In breve, il mercato delle quote di emissioni di gas serra che è stato introdotto nel 2005. Presso di esso le istituzioni europee emettono “permessi di inquinare” fino a un certo livello, oltre al quale scattano sanzioni. Questi titoli di permesso possono essere venduti e comprati, e al mercato sono obbligate a partecipare tutte le società inquinanti degli stati membri, tra cui quelle che producono energia elettrica. 

Periodicamente, le istituzioni riducono i permessi erogati, aumentando il prezzo della CO2. In particolare quest’anno è iniziata una nuova fase della diminuzione delle quote erogate: la quarta fase di scambio. Questa fase durerà dal 2021 al 2030, si ambisce, con essa,a raggiungere gli obiettivi preposti dagli accordi di Parigi. Durante la fase quattro, rivista recentemente (nel 2018), l’ETS ridurrà annualmente il tetto massimo di emissioni del 2.2%, aumentando i costi di produzione, tra le altre cose, dell’energia elettrica tramite centrali a gas o a petrolio.

La situazione in altri paesi dell’unione

È interessante vedere poi come altri paesi sono stati impattati dalla cosa e come stanno reagendo ad oggi:

  • Germania: almeno finora, sembra che la Germania, nonostante stia vedendo un aumento di oltre il 10% dei costi in bolletta per una fetta consistente di cittadini, non voglia intervenire. Il settore energetico tedesco ha natura privata, e il governo conta che il mercato riequilibri i prezzi da se.
  • Spagna: ha attaccato i profitti delle società energetiche per abbassare i costi per i cittadini.
  • Francia: nonostante abbia subito meno il colpo per quanto riguarda l’elettricità (per via del suo particolare electricity mix, tema su cui torneremo più tardi), ha deciso di proteggere i cittadini in difficoltà dall’aumento del costo del gas congelando le tariffe e distribuendo bonus a 5.8 milioni di famiglie.

Il peculiare electricity mix francese consiste nell’uso massiccio dell’energia nucleare, un tema che è recentemente tornato nel dibattito pubblico italiano, seppur brevemente. Ebbene, la Francia utilizza (in percentuale) più energia elettrica prodotta tramite il nucleare in relazione al totale di chiunque altro. Il che le permette di avere uno degli share di elettricità prodotta tramite combustibili fossili più basso dell’UE (secondo solo alla Svezia).

Per esigenze di spazio, non si sono inseriti tutti i paesi dell’UE o altri extra-UE; per una consultazione più estensiva, Our World in Data permette di costruire le proprie tavole a riguardo in maniera intuitiva

Questo ci permette di passare all’ultimo topic di interesse di quest’ultimo mese in riguardo alla questione.

Cingolani e la breve parentesi nucleare in Italia

L’energia nucleare è brevemente tornata a far discutere (nel nostro paese) proprio poco prima del pieno della crisi delle bollette quando il ministro alla transizione ecologica Roberto Cingolani, a inizio settembre, ha citato nuove tecnologie del settore, accusando gli ecologisti di essere idealisti nell’approccio alla materia. Cingolani citava una tecnologia sperimentale: gli SMR (small modular reactors), reattori “piccoli”, che producono un quinto dell’energia rispetto a quelli standard, non produrrebbero acqua pesante, e meno scorie. Il ministro ha detto che la tecnologia non è ancora matura, ma che se dovesse rivelarsi sicura e poco costosa, “sarebbe da folli non considerarla”. In effetti in altri paesi, come Cina, Russia, Regno Unito, Francia e USA, da tempo si valuta e si investe su questo “nucleare di quarta generazione”. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’office of nuclear energy del Department of Energy ha come obiettivo il dispiego domestico di tali reattori tra la fine degli anni ’20 e gli inizi dei ’30.

Le reazioni negative immediate di esponenti della politica come Giuseppe Conte o Angelo Bonelli (co-portavoce di europa verde) fanno pensare che l’idea di Cingolani sia stata bocciata in partenza; del resto, l’opinione pubblica del paese si è espressa già negativamente nei passati referendum, tuttavia, c’è una possibilità che le parole del ministro abbiano spostato in parte l’ago della bilancia.

Così sembrerebbe guardando due sondaggi eseguiti da SWG negli scorsi mesi: secondo il primo, risalente a giugno 2021, solo il 33% degli italiani si diceva favorevole al riconsiderare l’utilizzo dell’energia nucleare; il secondo, effettuato una settimana dopo le dichiarazioni di Cingolani, trova invece il 42% degli intervistati d’accordo con le parole del ministro. I quesiti posti sono leggermente differenti tra i due sondaggi, ma si può ragionevolmente affermare che la differenza sia significativa.

Molti sostengono che il nucleare costi troppo, sia pericoloso, o che semplicemente non serva. Altri sostengono che senza nucleare non si potranno mai lasciare completamente i combustibili fossili per la poca affidabilità delle rinnovabili quando si tratta di produrre energia in maniera continuativa: il solare quando non c’è il sole e le pale eoliche quando il vento non tira. Una risposta univoca dal mondo scientifico ancora non sembra esserci.  

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Coinbase approda al Nasdaq sull’onda dell’entusiasmo

Aprile 19, 2021 by Tommaso Trabona Lascia un commento

Coinbase Global Inc., una tra le più importanti piattaforme al mondo per il trading di criptovalute, ha esordito in borsa mercoledì scorso quotandosi al Nasdaq, tramite un’operazione di direct listing (alternativa al processo di IPO). Gli investitori hanno valutato Coinbase intorno agli 86 miliardi di dollari alla fine del primo giorno di contrattazione (valutazione su base ‘fully diluted shares’, ovvero comprensiva di stock options, convertible bonds e altri tipi di rewards sulle azioni). Il valore del titolo è oscillato fortemente nell’arco della giornata: dai 381$ in apertura, ad un assestamento finale intorno a 328$, comunque superiore del prezzo target di 250$ fissato il giorno precedente. La capitalizzazione di mercato alla campanella di chiusura si è aggirata sui 65.4 miliardi di dollari, valore che inserisce l’azienda tra le prime 150 ‘public company’ (quotate) degli Stati Uniti. Gli asset digitali sono sempre stati molto discussi e in un certo senso divisivi nel mondo della finanza. Per questo bisogna soffermarsi sul significato della quotazione, che per molti ha rappresentato una sorta di validazione istituzionale di Bitcoin e simili.

Coinbase nasce come start-up nel 2012 dall’idea di Brian Armstrong, ex ingegnere di AirBnb certificatosi multi-miliardario mercoledì (la sua frazione azionaria da sola vale 13 miliardi di dollari). La sua azienda si è formata nove anni fa sulla base di un’intuizione imprenditoriale visionaria ma semplice: creare una piattaforma di ‘exchange’ in cui gli investitori possano vendere e comprare cripto-valute. L’impresa suscitò fin da subito un discreto interesse in chi aveva intravisto possibilità di crescita nel mercato delle valute digitali. Diversi fondi di venture capital (tra i quali il fondo di Marc Andreessen- vecchia volpe-) finanziarono il progetto in prima battuta e da questi, già a fine 2013, Coinbase aveva raccolto più di 25 milioni di dollari. Negli anni successivi, l’andamento delle criptovalute (e Bitcoin in particolare) ha vissuto di singhiozzi e fiammate, attestandosi su un basso livello di credibilità presso gli apparati finanziari più istituzionali. Poi è arrivata la pandemia ed effettivamente qualcosa pare essere cambiato.

Nell’ultimo anno Bitcoin, per una serie di ragioni che non analizzeremo in questa sede, è stato oggetto di un trend rialzista. Rispetto a dodici mesi fa vale otto volte tanto (intorno ai 55mila dollari). Ovviamente le fortune dell’azienda sono inevitabilmente legate all’andamento delle valute digitali scambiate e dal loro volume di scambio. Non è difficile immaginare allora l’incremento mostruoso dei ricavi per la piattaforma nell’ultimo anno: 1,8 miliardi di fatturato solo nei primi tre mesi del 2021 (1.1 miliardi di EBITDA), nove volte di più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Secondo stime recenti Coinbase copre l’11% dell’intero mercato delle criptovalute, per un totale di 90 miliardi di asset alla fine dell’anno scorso e 56 milioni di utenti attivi ad oggi. L’azienda è riuscita di fatto a costruire una posizione dominante nel già ristretto oligopolio di ‘exchanges’ che gestiscono il settore. Come? Una discreta affidabilità, buoni rapporti con gli enti regolatori e ovviamente l’ampia offerta di valute digitali scambiabili. Coinbase non ha fatto altro che sfruttare la spinta frenetica degli ultimi mesi, decidendo così di quotarsi.

Le revenues dei primi 3 mesi del 2021 hanno già superato quelle di tutto l’anno scorso

Volendo rovinare un po’ la festa bisognerebbe ricordare alcuni fattori. Un primo elemento di dubbio è rappresentato dal modello di business della piattaforma. Sebbene infatti l’azienda offra alcuni servizi accessori, tra cui per esempio la custodia delle monete digitali per grossi clienti, il 96% dei ricavi netti a bilancio provengono dalle quote di transazione percentuali (intorno ai 50 punti base) applicate ad ogni singola operazione di compravendita. Di questi introiti, il 44% proviene dal trading di Bitcoin (ed altra buona parte da Ethereum, seconda moneta più scambiata). Insomma, se il mercato cresce notevolmente, come negli ultimi mesi, Coinbase vola. Ma se il mercato dovesse calare? L’obiettivo dichiarato del CEO Armstrong, come è normale che sia, è di rendere la redditività della piattaforma sostenibile sul lungo periodo. Per riuscire nell’obiettivo la prima mossa dovrà essere quella di diversificare il business ed emanciparlo dalla sua dipendenza concentrata solo su alcune monete (fattore particolarmente rischioso se pensiamo alla volatilità del settore). Un altro elemento di rischio è l’inasprirsi della concorrenza. Abbiamo detto di come Coinbase benefici di un ottimo posizionamento di mercato (per altro sempre più difficile da raggiungere per i concorrenti più piccoli all’aumentare delle diverse criptovalute offerte). Ma pare che altre piattaforme di trading, visto il successo degli ultimi mesi, stiano aprendosi alle valute digitali. Tra tutte è emersa Robinhood, anch’essa molto diffusa tra gli investitori retail e chiacchierata recentemente per il caso GameStop, la quale ha dichiarato che presto comincerà ad ampliare la propria offerta di ‘cryptocurrency wallet’. Una mossa che dovrebbe ridurre il divario con Coinbase. 

In fine una riflessione sull’annosa ambizione di voler soppiantare il meccanismo finanziario corrente. I più fermi sostenitori di Bitcoin e simili continuano a propagandare le valute digitali come una tecnologia in procinto di cambiare il mondo e la quotazione di Coinbase è stata l’ennesima occasione per gridare vittoria. A calmare gli animi ci ha pensato Jerome Powell, governatore della Federal Reserve. Il suo commento è stato esattamente quello che ci si aspetterebbe da un banchiere centrale. Ha definito le criptovalute un ‘veicolo per la speculazione’ e le ha assimilate, con un parallelismo comune, all’oro. La comunanza tra un Bitcoin ed un lingotto starebbe nel fatto che entrambi non hanno nessuna valenza intrinseca (poiché inutili in qualsiasi processo industriale), ma ai quali gli umani attribuiscono comunque un valore (in quanto risorse scarse). Anche se per diventare come l’oro, le valute digitali dovrebbero prima di tutto stabilizzare il loro valore nel tempo. Lo sbarco in borsa di Coinbase certifica sicuramente un’apertura istituzionale di Wall Street alle criptovalute, considerate sempre di più come una nuova ‘asset class’ di investimento. Ma dato che i rischi sottostanti continuano ad essere sempre i soliti (volatilità, speculazione e contorni opachi del mercato), questa maggiore inclusione delle valute digitali nei comparti più tradizionali, dovrà essere progressivamente accompagnata da una maggiore regolamentazione.

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