Da qualche settimana uno dei topic centrali nel dibattito pubblico è quello del rialzo delle bollette: dal famoso incremento del 40% annunciato dal ministro della transizione energetica Roberto Cingolani a metà settembre, alla comunicazione dell’Autorità di regolazione per Energia (ARERA) di fine mese, che annuncia un aumento del 29.8% dal primo di ottobre.
L’intervento del governo
L’aumento decisamente notevole è stato calmierato solo tramite un decreto d’urgenza dell’attuale governo. Precisamente, ARERA dichiara che il 29.8% citato prima è stato un differenziale tra l’incremento del costo della materia prima (+41.5%) e lo storno degli oneri generali di sistema voluto dal governo (-11.7%). Se i costi dovessero aumentare ancora, il governo, volendo intervenire ancor allo stesso modo, potrebbe chiedere ad ARERA di azzerare o diminuire altre componenti, come le spese di regolazione e distribuzione, o distribuire altri bonus alle famiglie ma non si può dire che sia una soluzione al problema. Da cosa deriva, dunque, l’aumento dell’energia?
Le cause dell’aumento del costo dell’elettricità e del gas
In breve, dall’aumento dei costi delle materie prime necessarie a produrre l’energia. Per capire l’impatto del costo di petrolio e gas sui costi di produzione dell’energia italiana, è utile dare un’occhiata all’electricity production mix, la ripartizione delle fonti di produzione di energia elettrica nel paese.
Risulta evidente che a dominare sia il gas naturale. Sommando tutte le rinnovabili si arriva a un buon 46% di energia pulita, tuttavia è da tenere in considerazione che qui si sta guardando solo alla produzione di elettricità, ben differente dal fabbisogno di elettricità, a cui bisognerebbe aggiungere un buon quantitativo di energia importata dall’estero (più del 10%). Ancora più importante è la differenza dal fabbisogno energetico: l’energia non è solo elettrica, si pensi al carburante necessario ai trasporti e alla produzione industriale. Nel consumo energetico totale è di gran lunga più dominante lo share di energia prodotta da fonti non rinnovabili, con gas e petrolio che da soli producono quasi l’80% dell’energia consumata.


Questo è importante per comprendere l’impatto dei rialzi dei prezzi di gas e petrolio. Ed è anche importante per fare dei paragoni con altri paesi europei, ci arriviamo più tardi.
Le scalate del prezzo di gas naturale e petrolio
Per quanto riguarda il petrolio, è utile guardare le tavole dei prezzi dei due benchmark petroliferi più utilizzati (tipi di petrolio su cui si basano i prezzi degli altri petroli per aree geografiche e settori).
Il West Texas Intermediate (WTI), utilizzato come punto di riferimento per il mercato petrolifero USA e il Brent, il riferimento del mercato petrolifero in generale, in particolare per Europa, Africa e Medio Oriente. Entrambi i Benchmark presentano, negli ultimi anni, trend uguali: entrambi hanno avuto un crollo nella primavera del 2020 per ovvi motivi (il WTI è addirittura andato in negativo per la prima volta nella storia). Da allora c’è stata una tendenziale risalita, avvicinandosi ora al prezzo più alto da ottobre 2019, con un aumento rispetto alla primavera dell’anno scorso di quasi il 200%. L’aumento del prezzo del petrolio è causato in parte dall’aumento tendenziale della domanda, per la ripartenza delle attività produttive dopo lo stallo della pandemia, e in parte perchè legato al prezzo del gas, che vediamo nel blocco successivo.


Il prezzo del gas, invece, è aumentato del 30% nel solo secondo semestre del 2021 (guardando l’andamento dei prezzi e dei futures della Title Transfer Facility (TTF), Hub principale dello scambio di gas naturale in Europa) e sta continuando ad aumentare per una concomitanza di fattori: dall’alta domanda, all’esaurimento di giacimenti nel mare del nord, alla riduzione delle esportazioni di gas russo verso l’UE.

L’effetto dell’ETS
Alla scarsità di gas e petrolio si aggiunge poi l’effetto dell’Emission Trading System dell’Unione. In breve, il mercato delle quote di emissioni di gas serra che è stato introdotto nel 2005. Presso di esso le istituzioni europee emettono “permessi di inquinare” fino a un certo livello, oltre al quale scattano sanzioni. Questi titoli di permesso possono essere venduti e comprati, e al mercato sono obbligate a partecipare tutte le società inquinanti degli stati membri, tra cui quelle che producono energia elettrica.
Periodicamente, le istituzioni riducono i permessi erogati, aumentando il prezzo della CO2. In particolare quest’anno è iniziata una nuova fase della diminuzione delle quote erogate: la quarta fase di scambio. Questa fase durerà dal 2021 al 2030, si ambisce, con essa,a raggiungere gli obiettivi preposti dagli accordi di Parigi. Durante la fase quattro, rivista recentemente (nel 2018), l’ETS ridurrà annualmente il tetto massimo di emissioni del 2.2%, aumentando i costi di produzione, tra le altre cose, dell’energia elettrica tramite centrali a gas o a petrolio.
La situazione in altri paesi dell’unione
È interessante vedere poi come altri paesi sono stati impattati dalla cosa e come stanno reagendo ad oggi:
- Germania: almeno finora, sembra che la Germania, nonostante stia vedendo un aumento di oltre il 10% dei costi in bolletta per una fetta consistente di cittadini, non voglia intervenire. Il settore energetico tedesco ha natura privata, e il governo conta che il mercato riequilibri i prezzi da se.
- Spagna: ha attaccato i profitti delle società energetiche per abbassare i costi per i cittadini.
- Francia: nonostante abbia subito meno il colpo per quanto riguarda l’elettricità (per via del suo particolare electricity mix, tema su cui torneremo più tardi), ha deciso di proteggere i cittadini in difficoltà dall’aumento del costo del gas congelando le tariffe e distribuendo bonus a 5.8 milioni di famiglie.
Il peculiare electricity mix francese consiste nell’uso massiccio dell’energia nucleare, un tema che è recentemente tornato nel dibattito pubblico italiano, seppur brevemente. Ebbene, la Francia utilizza (in percentuale) più energia elettrica prodotta tramite il nucleare in relazione al totale di chiunque altro. Il che le permette di avere uno degli share di elettricità prodotta tramite combustibili fossili più basso dell’UE (secondo solo alla Svezia).

Questo ci permette di passare all’ultimo topic di interesse di quest’ultimo mese in riguardo alla questione.
Cingolani e la breve parentesi nucleare in Italia
L’energia nucleare è brevemente tornata a far discutere (nel nostro paese) proprio poco prima del pieno della crisi delle bollette quando il ministro alla transizione ecologica Roberto Cingolani, a inizio settembre, ha citato nuove tecnologie del settore, accusando gli ecologisti di essere idealisti nell’approccio alla materia. Cingolani citava una tecnologia sperimentale: gli SMR (small modular reactors), reattori “piccoli”, che producono un quinto dell’energia rispetto a quelli standard, non produrrebbero acqua pesante, e meno scorie. Il ministro ha detto che la tecnologia non è ancora matura, ma che se dovesse rivelarsi sicura e poco costosa, “sarebbe da folli non considerarla”. In effetti in altri paesi, come Cina, Russia, Regno Unito, Francia e USA, da tempo si valuta e si investe su questo “nucleare di quarta generazione”. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’office of nuclear energy del Department of Energy ha come obiettivo il dispiego domestico di tali reattori tra la fine degli anni ’20 e gli inizi dei ’30.
Le reazioni negative immediate di esponenti della politica come Giuseppe Conte o Angelo Bonelli (co-portavoce di europa verde) fanno pensare che l’idea di Cingolani sia stata bocciata in partenza; del resto, l’opinione pubblica del paese si è espressa già negativamente nei passati referendum, tuttavia, c’è una possibilità che le parole del ministro abbiano spostato in parte l’ago della bilancia.
Così sembrerebbe guardando due sondaggi eseguiti da SWG negli scorsi mesi: secondo il primo, risalente a giugno 2021, solo il 33% degli italiani si diceva favorevole al riconsiderare l’utilizzo dell’energia nucleare; il secondo, effettuato una settimana dopo le dichiarazioni di Cingolani, trova invece il 42% degli intervistati d’accordo con le parole del ministro. I quesiti posti sono leggermente differenti tra i due sondaggi, ma si può ragionevolmente affermare che la differenza sia significativa.
Molti sostengono che il nucleare costi troppo, sia pericoloso, o che semplicemente non serva. Altri sostengono che senza nucleare non si potranno mai lasciare completamente i combustibili fossili per la poca affidabilità delle rinnovabili quando si tratta di produrre energia in maniera continuativa: il solare quando non c’è il sole e le pale eoliche quando il vento non tira. Una risposta univoca dal mondo scientifico ancora non sembra esserci.
Vorrei precisare che il sondaggio SWG citato, si riferisce ad una rilevazone dello scorso giugno, pertanto è precedente e non, come scritto nell’articolo, successivo alle dichiarazioni di Cingolani. La differenza è rilevante.Un altro sondaggio, sempre SWG, condotto in settembre, porta le percentuali favorevoli al nucleare al 42%.
https://italianucleare.it/2021/09/15/nucleare-di-nuova-generazione-cresce-il-consenso-tra-gli-italiani/
La ringrazio per la correzione. L’articolo è stato corretto ed aggiornato.