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Invenicement

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Irene Vendrame

Consultique e il nuovo mondo della consulenza finanziaria indipendente

Maggio 31, 2021 by Irene Vendrame Lascia un commento

Hai mai pensato di diventare un consulente finanziario, senza però dover lavorare in banca?

Giulia Armellini e Giuseppe Romano di Consultique – ospiti per un webinar organizzato con loro da Invenicement – ci svelano che la consulenza finanziaria indipendente è un mercato in crescita nel panorama italiano.

La consulenza finanziaria in banca

Fino ad oggi il sistema finanziario italiano è rimasto, per così dire, “bancocentrico”: quando si vuole fare un investimento, che sia piccolo o grande, ci si rivolge ad una banca, presso la quale lavora un consulente iscritto all’albo. Il consulente ci mostrerà le varie opzioni e ci indicherà quale può essere la più adatta alle nostre esigenze, con il fine di farci acquistare un prodotto finanziario della banca a cui fa riferimento.

Il servizio è generalmente gratuito, perché il consulente è pagato dall’ente bancario a cui fa riferimento, anche se, per quanto riguarda gli investimenti più sostanziosi, spesso ci si ritrovano spese di commissione annue molto alte, che possono essere equiparate ad una vera e propria parcellizzazione. In più, vi è un chiaro conflitto d’interessi: il consulente agirà in modo tale da avvantaggiare l’istituto bancario in cui lavora, dal momento che offrirà al cliente un ventaglio di opzioni limitato a quello che la propria banca può offrire.

I consulenti finanziari indipendenti

In alternativa a questo sistema, che rischia di danneggiare chi vuole investire il capitale, si sta affermando una nuova figura: quella del consulente indipendente. Già presente ed affermato nel mercato americano e in quello del Regno Unito, ha cominciato a diffondersi con più ritardo anche in Italia, dove solo due anni fa ne è stato istituzionalizzato l’albo. Si stratta di una figura professionale totalmente indipendente da banche o altri enti commerciali, che ha un proprio studio al pari di altri liberi professionisti – come il commercialista o l’avvocato – e che viene retribuito tramite parcella. Infatti, diversamente dai consulenti che si trovano in banca, il loro scopo non è quello di vendere specifici prodotti finanziari (in modo da generarne ricavo), ma quello di accompagnare il cliente nella gestione del suo patrimonio attraverso analisi accurate e indicazioni su misura delle proprie necessità.

Cosa fa Consultique?

Consultique – società di consulenza finanziaria indipendente – si occupa, tra le altre cose, di formare questo tipo di figure professionali che sono sempre più in aumento e di condurre analisi che possano essere messe al servizio di questo lavoro. È una possibilità lavorativa particolarmente indicata per quei giovani che vorrebbero occuparsi di consulenza finanziaria, senza però rinunciare alla libertà di poter gestire i propri clienti in autonomia. Per intraprendere questa carriera – consiglia Giulia Armellini – è consigliabile fare esperienza sul campo, prima di aprire uno studio proprio. Per fosse deciso in questa direzione, Consultique organizza un Master Executive in Consulenza e Pianificazione Finanziaria Indipendente, che sostituisce un percorso completo alla professione. È diviso in quattro moduli: due riguardano gli strumenti finanziari, mentre gli altri due sono relativi al financial planning. Il master occupa tre giornate al mese per quattro mesi ed è tenuto in live streaming, favorendo così chi vuole impegnarsi anche in ambito strettamente lavorativo. Gli insegnanti sono consulenti Consultique, ovvero professionisti che praticano quest’attività da tempo e hanno esperienza diretta nella gestione dei clienti. Ad iscriversi a questi corsi sono spesso professionisti già avviati che vogliono dare un taglio diverso alla propria carriera, ma il master non vuole essere solo questo: la partecipazione delle nuove leve della finanza è ampiamente favorita, grazie al 50% di sconto che si può ottenere sulla retta del master se si hanno meno di 30 anni.

Per avere un assaggio di questo percorso formativo o anche solo per saperne di più sul mondo della finanza in generale puoi cliccare qui ed avere accesso a moltissimi contenuti, da veri e propri webinar a interviste ed eventi.

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Gli investimenti pubblici fanno bene all’economia? In Italia sembra di no

Aprile 26, 2021 by Irene Vendrame Lascia un commento

Con la crisi innescata dalla pandemia e gli aiuti economici in arrivo dall’Unione Europea, è più che mai attuale chiedersi in che modo lo Stato debba aiutare i suoi cittadini più in difficoltà e quale sia il modo più efficace per distribuire le nostre (esigue) risorse.

Il Welfare State nella sua accezione tradizionale, che ha conosciuto la sua età d’oro durante il boom economico (ne avevamo già parlato qui) è di sicuro passato di moda: troppo costoso, soprattutto nei momenti di crisi e recessione. Stando a Reagan e alla Thatcher – i beniamini del neoliberismo degli anni ‘80 e ’90 – le misure di welfare non sarebbero solo inutili, ma addirittura dannose per l’andamento dell’economia, perché impedirebbero al mercato di allocare le risorse in maniera adeguata e ne minerebbero l’efficienza. Ci dispiace deluderli: nonostante i coraggiosi tagli alle spese compiuti dalle loro amministrazioni, pur in parte risanando le casse dei loro Paesi, non sono riusciti a risolvere in maniera soddisfacente quei problemi socioeconomici, come la disoccupazione e la povertà, che avrebbero poi avuto ripercussioni anche sull’economia del nuovo millennio.

Una nuova prospettiva di welfare

Sarebbe bene che lo Stato intervenisse, se non altro per “dare una mano” all’economia di mercato a diventare più efficiente. La prospettiva di welfare che si è fatta largo negli ultimi anni è quella del social investment spending: si tratta di una spesa pubblica finalizzata a risolvere questioni sociali non solo nell’immediato, ma anche a lungo termine. Questo investimento strategico, infatti, oltre  a fare in modo che gli stessi problemi non si ripresentino in futuro, punta a creare le basi per un’economia più salda ed efficiente, cosicché da un lato si possa recuperare nel lungo periodo il denaro speso per il welfare, e dall’altro si rendano più ampi i bacini di spesa dello Stato.

Le misure di questo tipo si concentrano soprattutto sulla creazione di capitale umano: gli investimenti sono dunque direzionati all’ambito dell’educazione e della formazione, non solo di tipo terziario (ovvero percorsi professionalizzanti ed universitari) ma a partire dai nidi e dalle scuole per l’infanzia; è stato infatti evidenziato come una precoce scolarizzazione abbia tangibili conseguenze positive anche sul successivo andamento scolastico e sull’inserimento del mondo del lavoro. In più, oltre a costituire un’importante punto di partenza nella formazione dei futuri studenti, crea maggiori opportunità per tutte quelle donne che si sono allontanate, totalmente o parzialmente, dal mondo del lavoro a seguito della maternità.

In breve, con queste policies, lo Stato metterebbe a disposizione dei cittadini tutti gli strumenti per poter partecipare in maniera performante – e possibilmente anche appagante – all’economia della conoscenza che si sta sviluppando negli ultimi anni. Esso costruirebbe una rete strutturata ed istituzionalizzata di welfare che da un lato è in grado di sanare il più possibile le diseguaglianze sociali ed economiche che portano gli individui a vivere in povertà, ma che allo stesso tempo è sostenibile a livello economico anche sul lungo periodo.

Investment spending in Italia

Sembra il welfare dei sogni, ma sarebbe davvero applicabile in Italia? Uno studio utilizza proprio il nostro Paese come esempio di social investment spending potenzialmente letale per le casse dello Stato. In Italia non solo queste misure non produrrebbero i risultati sperati, ma addirittura danneggerebbero l’economia. Perché?

In primo luogo perché l’Italia non ha l’ ”economia giusta”. La chiave delle misure di investment spending sta nel fatto che danno vita a un circolo virtuoso attraverso la creazione di capitale umano, che avrà più probabilità di entrare nel mercato del lavoro. Però in Italia non c’è una diretta connessione tra università e lavoro, anzi, negli ultimi anni il mercato del lavoro per i laureati è diventato ancora più ostile (da qui la fuga di cervelli), a causa della bassa spinta innovativa nelle imprese italiane. Una policy di investimento sociale nel capitale umano dovrebbe quindi essere accompagnata da riforme strutturali che vadano a sbloccare i meccanismi di innovazione in ambito imprenditoriale in maniera permanente ed efficace.

Riguardo alla questione dell’occupazione femminile è chiaro che in Italia manchino delle basi solide ed organizzate di welfare per quanto riguarda la cura di anziani e bambini: queste attività sono gestite quasi interamente dalla componente femminile delle famiglie italiane. Lo Stato, fino ad ora, si è limitato ad elargire alcuni aiuti economici “tappa buchi”, che costituiscono una voce importante della spesa pubblica, senza però esaurire il problema.

Le misure del cosiddetto welfare in Italia sono quindi abbastanza inefficaci, mancano di coesione e struttura. Pensare di aumentare la spesa statale mantenendo questi schemi – adottando quindi solo la retorica e non il vero spirito della spesa d’investimento sociale – si rivelerebbe controproducente, probabilmente aumenterebbe il nostro debito pubblico senza risolvere davvero i problemi del nostro Paese.

Se però avvenisse un cambiamento strutturale, un vero e proprio cambio di paradigma, forse anche l’Italia avrebbe una chance di costruire il proprio futuro in modo inclusivo e sostenibile. Per farlo è necessaria la volontà politica, è fondamentale che i problemi come la povertà, l’abbandono scolastico e la sottoccupazione femminile siano percepiti davvero come nocivi e venga riconosciuta la necessità di risolverli in maniera permanente e decisiva, con un’azione che non si limiti ad arginare il problema nell’immediato, ma che sia capace di guardare al futuro.

Bibliografia:

Jenson J. (2010), Diffusing Ideas for After Neoliberalism: The Social Investment Perspective in Europe and Latin America, Global Social Policy, 2010/4.

Kazepov Y. and Ranci C. (2017), Is every country fit for social investment? Italy as an adverse case, Journal of European Social Policy, Vol. 27.

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Caffé con il Manager – Deloitte

Marzo 15, 2021 by Irene Vendrame Lascia un commento

Lo scorso giovedì il team eventi di Invenicement ha organizzato il primo Caffè con il Manager di questo semestre, portandoci alla scoperta di Deloitte attraverso le parole di due ex-cafoscarini, Nicola Milella e Sonia Andrigo.

Si tratta di una delle cosiddette Big Four (le principali società di consulenza a livello internazionale) che conta migliaia di dipendenti ed è presente in 150 paesi nel mondo. Si contraddistingue per la dinamicità interna, la gender ratio molto vicina al 50% e per il fatto che più della metà dei dipendenti hanno un’età inferiore ai trent’anni.

Sia Nicola che Sonia sono entrati in Deloitte subito dopo aver terminato il loro percorso di studi con un doppio diploma all’estero: l’esperienza di studio in un paese straniero non è essenziale, ma sicuramente fa acquisire punti al curriculum, soprattutto perché aiuta a sviluppare skills linguistiche in inglese. “Sponsorizzo sempre l’esperienza all’estero, al di là della finalità professionale, è qualcosa che ti fa crescere a livello personale, a me ha cambiato la vita” ci confida inoltre Sonia.

Lei, appena assunta, ha lavorato inizialmente come consultant per un progetto relativo alle normative per l’evasione fiscale, per poi cambiare ad una posizione più manageriale nell’ambito degli accordi di Basilea: “la mia esperienza è indice del fatto che è possibile muoversi in vari ambiti anche una volta entrati, anzi sono molto attenti alle tue esigenze professionali e ai tuoi desideri”.

Nicola invece si occupa dello sviluppo di modelli per la valutazione del rischio di credito; “appena entrato, vieni subito catapultato nel mondo del lavoro e responsabilizzato, cominci da subito a seguire in autonomia i tuoi progetti e ti interfacci direttamente con i clienti” racconta riguardo alla sua esperienza.

Raccontano che per entrare in Deloitte – con cui sono entrati in contatto proprio grazie ai Career Days di Ca’ Foscari – si devono generalmente superare due tipi di selezioni: la prima consiste in una prova individuale e scritta di logica e cultura generale, seguita da un assessment centre, che consente ai recruiter di capire la tua personalità; la seconda parte invece, a cui puo accedere solo chi ha superato la prima, è un vero e proprio colloquio, dove cercano di capire come ti poni di fronte alle situazioni di difficoltà e come te la cavi. “Non è tanto importante se sai la risposta, ma come ti poni di fronte alla risposta che non sai” rivela Sonia.

In generale, il loro consiglio è di buttarsi: l’importante è l’approccio che si ha, più che ciò che c’è scritto sulla carta, “se pensate di poter dare il giusto apporto a quel lavoro, allora fatelo capire, fatevi valere” consiglia Sonia. “Solitamente le offerte di lavoro hanno standard abbastanza alti, quindi non sentitevi intimiditi se non soddisfate proprio tutti i requisiti: non è detto nemmeno che esista la persona perfetta per quella posizione, quindi, se l’offerta vi piace, candidatevi, al limite perdete il tempo dell’application” spiega Nicola.

Essenziale per entrare in una società di questo tipo è sicuramente la laurea magistrale, anche il voto conta molto. Le esperienze di stage in questo ambito lavorativo non sono essenziali per essere presi in considerazione, ma, a parità di curriculum possono sicuramente aiutare.

Non è necessaria invece una specializzazione tecnica – al di là ovviamente delle hard skills di base – perché molto si acquisisce lavorando.

Le conoscenze acquisite durante l’università sono molto importanti: per la posizione ricoperta da Nicola, per esempio, le conoscenze di programmazione e di statistica sono fondamentali, mentre per Sonia, anche se non le applica direttamente, sono comunque utili per muoversi agevolmente sul lavoro; tuttavia ci si trova in un processo di continuo apprendimento, che porta a specializzarsi nel proprio ambito mano a mano che ci si lavora.

Il consiglio che entrambi danno a chiunque voglia intraprendere questo percorso è quello di abituarsi ad uscire dalla propria zona di confort, imparare a fronteggiare le difficoltà e i problemi inaspettati, insomma: a saper trovare una risposta affidabile anche quando una risposta, in prima battuta, non la si ha.

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Intervista a Monica Vitali – Gruppo Cambielli Edilfriuli

Febbraio 15, 2021 by Irene Vendrame Lascia un commento

Laureata con lode in Economia e Commercio a Bologna, conseguito un master in Comunicazione d’Impresa e maturati 20 anni di esperienza nella contabilità aziendale, Monica Vitali si occupa attualmente di controllo di gestione, bilanci e bilancio consolidato per il Gruppo Cambielli Edilfriuli, è inoltre sindaco revisore e membro di due organismi di vigilanza.

Dall’esigenza di condividere le sue preziose competenze è nato, sette anni fa, il blog Cum Grano Salis (e la pagina Instagram dedicata) con il quale cerca di spargere il verbo dell’economia e della finanza anche tra i non addetti ai lavori, di diffondere “la mentalità contabile”, come la chiama lei.

L’abbiamo intervistata per sapere, alla luce della sua esperienza, qual è la via da percorrere per costruire una carriera di successo.

Monica Vitali si occupa attualmente di controllo di gestione, bilanci e bilancio consolidato per il Gruppo Cambielli Edilfriuli

Creazione di valore is the Way

Ciò che emerge dalle sue è che oggi più che mai ci si deve affacciare al mondo del lavoro in un’ottica di creazione di valore: “la contabilità di per sé è un lavoro che si andrà sempre più ad automatizzare e avrà sempre meno valore aggiunto, mentre importantissimo è il controllo di gestione, cioè l’analisi dei dati. Sarà sempre più importante: oggigiorno non si può più prescindere dall’avere dei dati ed analizzarli.”

Il problema è l’enorme mole di dati disponibili, infatti “prima bisognava andarli a cercare, adesso invece sono troppi, quindi ci vogliono proprio delle persone che siano in grado di capirli ed estrapolare le informazioni utili. In un mondo sempre più veloce e sempre più interconnesso devono essere facilmente visibili, facilmente comunicabili, le informazioni devono essere chiare, poche ma buone, insomma.”

Il controllo di gestione sta emergendo come professionalità importante anche nelle piccole imprese, nelle quali, oltre all’attività di analisi in sé, è importante avere la capacità di comunicare con l’imprenditore stesso, che molte volte non ha un mindset orientato all’analisi, e con le altre figure presenti all’interno dell’azienda. “Anche nelle attività molto piccole – dove prima si demandava tutto al commercialista – sarà sempre più importante invece una figura in grado di capire, non tanto come si fa la contabilità generale, ma quella analitica.”

Gli organismi di vigilanza (leggi qui) possono diventare anch’essi uno sbocco da prendere in considerazione, non solo per chi proviene da facoltà giuridiche: “qui ci può essere uno spazio interessante anche per gli studenti di economia, proprio perché adesso sono stati aggiunti i reati tributari, ma anche per come vengono impostati questi modelli organizzativi, e questi organi. Oltre al Presidente, che normalmente ha una formazione giuridica, infatti, all’interno degli organismi di vigilanza ci sono anche altri membri. Più sono variegate le personalità al loro interno e meglio è, perché ognuno dà il proprio apporto. Secondo me aumenteranno le società che li adotteranno, perché il legislatore sta spingendo molto in questa direzione, aumentando sempre di più reati inseriti, ed è una cosa che ancora pochi conoscono o in cui si sono specializzati.”

L’importanza del personal branding

È importante poi – sia per chi desidera entrare in azienda, sia per chi vorrebbe percorrere la strada della libera professione – costruirsi un profilo dinamico e unico, che metta in risalto le potenzialità della propria figura e il valore aggiunto che si può fornire al cliente o all’impresa.

“La presenza social è fondamentale, soprattutto su Linkedin, per il personal branding. Anche se alla fine decidi di lavorare in un’azienda, devi avere un paracadute, perché il posto fisso sappiamo che non esiste più. Quindi se ti sei costruito un tuo personal brand sui social sarai sempre e comunque apprezzato e troverai più facilmente contatti e stimoli” dunque il consiglio è di dedicargli del tempo anche dopo essere entrati nei meccanismi del mondo del lavoro.

Ma, si sa, una bella vetrina serve a poco, se al suo interno non c’è nulla. È essenziale, infatti, costruirsi un bagaglio di competenze non solo in ambito accademico, ma anche in quello lavorativo, che è totalmente diverso e può fornire capacità – come l’abilità di relazionarsi con gli altri o l’autorevolezza nel saper gestire un team – che non è possibile acquisire altrimenti. Crescere in questo senso è possibile, a prescindere dalle esperienze che si fanno, “non bisogna disdegnare i lavori troppo umili, perché se tu hai le antenne dritte sono anche quelli che ti permettono di capire come funziona il lavoro, come funziona l’azienda”, ciò che fa la differenza, quindi, è soprattutto la disposizione ad imparare e di mettersi in gioco. Insomma, è l’atteggiamento che può trasformare l’esperienza più banale in “una grandissima opportunità, se uno la sfrutta per imparare qualcosa” e far emergere un profilo agli occhi dei recruiter.

Discriminazione & Co.

La questione “discriminazione” è purtroppo un tasto dolente: i datori di lavoro troppe volte tendono a scegliere gli uomini perché presuppongono che siano disposti ad investire di più sul lavoro, che siano più disponibili a spostarsi, più dinamici, in altre parole più coinvolti. Questo in parte forse é vero, nel senso che per molte donne la carriera è ancora solo uno di molti aspetti della loro vita, dunque a volte “lasciano la presa” più facilmente, mentre per gli uomini spesso il lavoro è l’unica sfera di realizzazione personale, quindi tendono a investirci di più. Questa asimmetria – e soprattutto il pregiudizio che essa genera rispetto le diverse attitudini al lavoro di uomini e donne – è giusto che venga ribilanciata, in modo tale che tutti possano seguire le proprie inclinazioni e i propri desideri, senza essere vittima di pressioni sociali o pregiudizi. Intanto, ciò che le ragazze possono fare per emergere è dimostrarsi capaci, avere uno spirito di collaborazione e non di competizione con le altre donne, prendere consapevolezza delle loro capacità e soprattutto credere in loro stesse.

Parola chiave: passione

In generale, ma questo vale per donne e uomini, quando si costruisce un percorso lavorativo “è opportuno capire quello che si vuole fare” ma, soprattutto, non avere “preclusioni mentali, perché la carriera si può anche formare sommando piccoli pezzi provenienti da varie parti”, dal momento che si va sempre di più nella direzione della promozione della propria figura nella sua interezza e nella sua originalità. Qualunque cosa si faccia ci si deve mettere passione, impegno e curiosità, perché è ciò che fa davvero la differenza.

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Brexit Deal: gioie e dolori

Gennaio 11, 2021 by Irene Vendrame Lascia un commento

Il 2020 non è stato di sicuro l’anno delle gioie, ma – a sorpresa – ce ne ha regalata una proprio il 24 dicembre, a mo’ di miracolo di Natale: il Brexit Deal, che è entrato in vigore a partire dal primo gennaio 2021.

Un percorso accidentato

Da quando il referendum sull’uscita del Regno Unito dall’UE ha dato esito positivo al “leave”, nel 2016, la domanda principale che tutti si sono posti è stata a quali condizioni questo “divorzio” avrebbe avuto luogo. I negoziati, che hanno avuto inizio nel marzo del 2017, hanno seguito un percorso tutt’altro che lineare, molto spesso assumendo sfumature politiche e rischiando più volte (se non diventandolo a tutti gli effetti) un braccio di ferro tra Bruxelles e Londra. L’incertezza della situazione ha portato a temere l’arrivo di una “hard” Brexit, ossia la rottura senza particolari accordi politici e commerciali tra Unione e Inghilterra, il ché avrebbe avuto risvolti negativi sia sulla mobilità delle persone tra le due aree geografiche, ma sopratutto sui commerci tra le due parti.

Sospiro di sollievo per l’agroalimentare

Fortunatamente ora sappiamo di essere fuori pericolo, l’accordo è stato raggiunto prima dello scadere della fase di transizione (che sarebbe terminata con il nuovo anno), con conseguenze positive anche per l’Italia. L’Inghilterra è infatti un grande importatore di merci made in Italy, rappresenta 25 miliardi di export italiano, di cui 3,4 miliardi di export alimentare, di cui il Regno Unito è il quarto mercato di sbocco, dopo Germania, Francia e Stati Uniti. Il prodotto trainante di questi commerci è sicuramente il vino (sopratutto il Prosecco Dop), il primo prodotto agroalimentare italiano venduto in Gran Bretagna, che solo nel mercato inglese ha fatturato, nel 2019, 771 milioni di euro.

In periodo di pandemia questo si rivela particolarmente strategico, perché mentre gli altri settori a causa del Covid-19 hanno accusato pesanti contrazioni, il settore alimentare è invece  quello che non solo non ha subito gravi perdite, ma, nonostante la pandemia, ha registrato un incrementato dell’1%. Inoltre, secondo Coldiretti, il rischio sarebbe stato non solo quello di una generale diminuzione dei commerci, ma anche quello di una concorrenza sleale per i prodotti Dop e Igp (che costituiscono circa il 30% dell’export alimentare italiano) da parte di prodotti che imitano il Made in Italy, ma che provengono da paesi extracomunitari o dall’Inghilterra stessa.

Uscita da Erasmus+

Non possiamo essere però altrettanto positivi per quanto riguarda la mobilità delle persone: in particolare, per quanto riguarda gli studenti, sarà più difficile o quantomeno più costoso accedere alle prestigiose università britanniche, dal momento che il Regno Unito si è chiamato fuori dal programma Erasmus+. Ora, per studiare in terra inglese sarà necessario ottenere un visto e pagare una retta universitaria raddoppiata, come tutti gli altri studenti extra-europei. Indispensabile il visto anche per ragioni lavorative, che potrà essere rilasciato solo se già in possesso di contratto di lavoro con un guadagno previsto di 25.600 sterline (fanno eccezione le professioni sanitarie e chi è in possesso di dottorato, specie se in materie scientifiche), mentre per ragioni turistiche non è necessario il visto fino a tre mesi di permanenza, ma è richiesto il passaporto obbligatorio. Boris Johnson ha annunciato che verrà creato un progetto sostitutivo al programma Erasmus+, chiamato Turing Scheme, per permettere la mobilità degli studenti inglesi, tuttavia non è ancora chiaro come questo programma si svilupperà.

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Ami F: la tua amica che lavora in banca!

Novembre 23, 2020 by Irene Vendrame 1 commento

Ami F. è bancaria da oltre vent’anni ed ha deciso di mettere a disposizione le conoscenze acquisite durante la sua florida carriera con chi di banca sembra non capirne poi molto: un anno fa è nato @pecuniami , una pagina Instagram dedicata alla divulgazione e all’educazione finanziaria aperta a tutti, ma destinata in modo particolare alle donne, che, a causa di retaggi socioculturali, sono le persone che più faticano a familiarizzare con la gestione del denaro.

Ma andiamo con ordine, perché la storia di Ami è tutt’altro che scontata.

Ami F. bancaria con vent’anni di esperienza, fondatrice di @Pecuniami

Un inizio in salita

“Sono nata e cresciuta a Salò sul lago di Garda, in Provincia di Brescia. Ho frequentato il liceo classico: a me non piaceva la matematica quindi ho provato a fare qualsiasi cosa che non avesse a che fare con i numeri. All’università ho fatto giurisprudenza con il vecchio ordinamento, quello che permetteva di laurearsi in 4 anni. Ho scelto l’indirizzo internazionale, perché il mio obbiettivo era lavorare in una ONG, o in Unione Europea o in generale in diplomazia. Mio padre è morto quando ero piccola, lavorava solo mia madre ed io sono la prima di tre fratelli, quindi fondamentalmente dovevo lavorare per portare avanti l’università” racconta, spiegando che fin da subito si ritrova a svolgere lavoretti di ogni tipo, a studiare la sera ed il weekend, a dover rinunciare all’Erasmus e alla tipica vita sociale universitaria (e agli spritz, aggiungeremmo noi cafoscarini). “Però avevo trovato un escamotage per viaggiare: nei periodi in cui non avevamo esami, me ne andavo per tre o quattro mesi all’estero a fare la ragazza alla pari ed imparare le lingue”.

Sono stati anni di sacrifici, che non ha vissuto nel migliore dei modi, ma che, a posteriori, riconosce essere stati una parte cruciale della sua formazione, che l’hanno aiutata ad essere ciò che è diventata. “Sinceramente posso dire, guardando anche le carriere che hanno avuto molti dei miei coetanei, che è andata bene così. Acquisire esperienze lavorative durante l’università – e non esiste lavoro serio e lavoro meno serio, tipo McDonald’s – permette di avere a che fare con un mondo che all’università non si impara”.

È chiaro infatti come le esperienze che Ami accumula sul campo durante gli anni di studio le permettano, una volta laureata, di avere già quattro anni di gavetta (rispetto ai suoi colleghi che invece partivano da zero) e dunque di avere accesso a posizioni “più senior” rispetto a quelle offerte ai neolaureati freschi di proclamazione.

Plot twist

Ma come è approdata in ambiente bancario a partire da una formazione umanistica? Potremmo dire che Ami, armata di intraprendenza e forza d’animo, ha fatto di necessità virtù. “Ho iniziato ad avvicinarmi alla banca facendoci “la stagione” durante l’estate nei miei anni di studio” spiega. Erano i primi anni 2000, non c’era ancora l’euro e, sul Lago di Garda, ogni estate, si riversavano migliaia di turisti da tutto il mondo, portando con sé le loro valute pronte per essere cambiate. Le banche quindi si trovavano a dover gestire un’immensa mole di lavoro concentrata nei mesi della bella stagione e dunque ad assumere dipendenti in più a tempo determinato. “Un amico che studiava Economia e Commercio mi ha detto che aveva già lavorato in questo modo e io, dato che volevo provare [qualcosa di nuovo] e in più davano anche un sacco di soldi, ho provato a fare dei colloqui.”

Il lavoro non le piace, lo trova noioso, ma dato che pagano bene, decide di rimanere quando le rinnovano per più volte il contratto. Non solo, rimane anche una volta finiti gli studi: “le professioni all’estero richiedevano un investimento non da poco, perché se volevi lavorare in una ONG, voleva dire entrarci e rimanerci da non pagata per un sacco di tempo, se volevi lavorare nelle istituzioni europee dovevi preparare i concorsi, il che significava fermarsi per diversi mesi, cosa che io non potevo permettermi. Mi sono detta “va bene, se in banca per un po’ ci devo restare facciamo però che sia a modo mio”. Il mio modo di vivere lavoro in banca da quel momento è cambiato ed ho iniziato ad impegnarmi per riuscire a fare carriera e in generale a crescere, dato che cerco sempre di uscire dalla mia zona di comfort”.

Questo atteggiamento proattivo ha permesso ad Ami notevoli avanzamenti di carriera: oggi, dopo vent’anni, è diventata NPL Senior Manager, si occupa cioè di ideare progetti per grandissime aziende in difficoltà, che consentano loro di creare valore e ricchezza, al fine di ripagare i loro debiti senza incorrere nel fallimento.

Ami spiega che non si è mai sentita vittima di discriminazione, anche perché, avendo scelto di non avere figli e dare maggior spazio al suo percorso professionale, non ha dovuto affrontare il problema maternità-lavoro: in effetti questo avrebbe complicato parecchio le cose, dato che, in Italia, le politiche a sostegno della famiglia sono praticamente inesistenti. “Ho avuto più difficoltà nel mio nuovo posto di lavoro, dove ci sono pochissime donne e sono tutte subordinate. Mi è spiaciuto tanto perché anziché riuscire ad instaurare dei rapporti di solidarietà, mi sono trovata nella situazione in cui ci sono tante donne che remano contro altre donne per invidia. Io a quello non ero preparata e mi ha disturbato parecchio” racconta, invece, riguardo alle sue ultime esperienze. Trovarsi di fronte a “uomini che odiano le donne” è già più frequente, mentre incontrare ostilità da parte femminile – che suona quasi come un tradimento – non le era mai capitato prima. “Non è che colpendo la collega a livello superiore che avrai un vantaggio, perché tutti gli uomini che sono attorno vedranno solo delle gatte che si azzuffano. L’ho trovato veramente svilente a livello professionale.”

In ogni caso però, ogni esperienza, anche quella più negativa, può rivelarsi utile per la propria crescita. Come spiega nella newsletter di novembre (per iscriverti clicca qui), lo “sconfort” può tirar fuori i nostri superpoteri.

“Ti racconto questa storia perché fa veramente capire che quando entri in un posto nuovo devi in ogni caso “sbatterti tanto”. Ero in cassa nella località turistica dove lavoravo, e all’epoca si usavano i traveler’s cheque, assegni che richiedevano la doppia firma per il cambio valuta per i turisti. Arriva un signore (che si chiamava signor Rosling) con questo tipo di assegno, faccio le varie operazioni di cambio – serviva il documento, era una procedura d’incasso piuttosto impegnativa – e se ne va. A fine giornata riguardo gli assegni e vedo che nel suo non c’era la firma: si era dimenticato di controfirmare, quindi voleva dire che non potevo incassarlo. Allora io, che avevo la fotocopia del passaporto di questo signore, ho iniziato a chiamare tutti gli alberghi, per vedere se alloggiava da qualche parte, così avrei potuto andare da lui per fargli firmare l’assegno. Ho passato dalle cinque alle otto di sera a cercare questo Rosling che alla fine non ho trovato. Ma le cose che mi ha insegnato questo primo errore sul lavoro sono state

1. Se sbagli sopravvivi (vabbe’, ci avevo rimesso 200mila lire, ma ero comunque sopravvissuta)

2. Non mollare mai nel cercare di sistemare questo errore.

3. Sbattiti, sbattiti, sbattiti! Perché comunque, quando si inizia un lavoro queste sono esperienze che ti insegnano tantissimo su come lavorare.”

Consigli pratici

Oggi, le caratteristiche imprescindibili per lavorare in ambito bancario sono sicuramente una grande elasticità mentale e un forte senso pratico, cioè quelle skills che si acquisiscono fuori dalle aule universitarie. In più, non è necessaria una formazione in ambito strettamente economico-finanziario (lei stessa, del resto, ne è l’esempio lampante): “ormai in banca vengono ricercate figure professionali che vanno dall’ingegnere al giurista, anche chi ha fatto lettere può trovare il suo posto, perché non in tutti i casi è richiesta una formazione economica. La laurea in Economia e Commercio non solo non è più strettamente necessaria, ma addirittura neanche più sufficiente: quello che studi ti serve in maniera relativa e chi lavora in banca deve essere una persona molto elastica, aperta e pronta ad aggiornarsi in maniera smart.”

Il consiglio che Ami dà a tutti quelli che intendono intraprendere una carriera professionale in quest’ambito è “vivi fuori [dall’università] e impara ad avere a che fare con persone di ogni tipo e ogni livello, perché non puoi mai sapere chi incontrerai come compagno di scrivania o chi sarà il tuo capo.” Inoltre, è importantissimo creare per sé stessi un profilo definito, concentrarsi in modo specifico sulla posizione che si vuole ricoprire e specializzarsi in quella direzione, in modo tale che i recruiter si facciano una idea ben precisa di quale potrebbe essere il tuo ruolo.

@Pecuniami

Il progetto @pecuniami nasce un anno fa (tra qualche giorno infatti la pagina festeggerà il suo primo compleanno), ma la sua incubazione ha avuto origine tempo prima. Tutto nasce quando Ami decide di partecipare ad un evento di empowerment femminile a Milano, dove incontra e si confronta con moltissime donne imprenditrici. “La maggior parte delle persone che erano lì producevano cose bellissime che io non ero in grado di fare, ma avevano problemi con la gestione dei soldi, non riuscivano a farsi dare il denaro per comprarsi casa, far quadrare i conti o farsi dare un fido. Ho passato il pomeriggio a dare consigli”. È in quel momento che Ami inizia a pensare di creare un progetto suo, dove poter mettere a disposizione della collettività – ed in particolare delle donne – tutto il suo sapere e la sua grande esperienza.

Questa intuizione prende ancora più forza quando, dopo essersi trasferita in Trentino, comincia a conoscere una realtà diversa da quella bresciana, soprattutto per quanto riguarda “la questione femminile”: lì infatti molte più donne decidevano di lasciare il lavoro o ridurlo ad un lavoro part-time per curare la famiglia, mentre ad occuparsi delle questioni finanziarie erano soprattutto gli uomini. Viene alla luce un problema che, oltre al Trentino, colpisce la maggior parte delle zone d’Italia, ossia la mancanza di basi di educazione finanziaria, carenza che colpisce soprattutto il genere femminile.

Educazione finanziaria

Una ragazza educata non parla di soldi, sono quasi un tabù, ma di fatto, in Italia, il tabù sembra essere esteso anche ai ragazzi, dato che abbiamo dei livelli altissimi di analfabetismo finanziario (qui un articolo del Sole 24 Ore).

“È un fattore culturale, siamo un paese cattolico, dove diventare ricchi è visto male, diamo delle accezioni negative a termini neutri, come a “speculazione”. In più è anche vero che l’ignoranza consente di governare meglio, la mancanza di consapevolezza ha permesso per tanti anni di vendere a qualsiasi persona prodotti [finanziari] che non erano adatti a chiunque. Il rischio [della mancanza di consapevolezza] è la povertà, non solo nel presente, ma soprattutto nel futuro”.

Secondo Ami, l’ideale è che l’educazione finanziaria avvenisse a scuola, ma dal momento che non è così (e che a fatica si fa educazione civica) ci si deve informare da soli, a piccoli passi e senza paura. Sicuramente, una pagina come @pecuniami può fare la differenza, dunque ci auguriamo che cresca e aspettiamo impazienti i suoi nuovi progetti.

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